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La politica era Cosa Nostra

Processo Stato-mafia. Il pentito Di Filippo: "In Sicilia non esisteva partito in grado di vincere le elezioni senza il volere dei boss"

20 marzo 2015

Nuova udienza del processo sulla Trattativa Stato-mafia. Oggi è stato il giorno del pentito Pasquale Di Filippo.
"Non esisteva in Sicilia nessun partito politico in grado di vincere le elezioni senza il volere di Cosa nostra. Mafia e politica, almeno fino al 1995, erano la stessa cosa. Ci fu il periodo del partito Radicale, poi quello Socialista, poi venne il momento di Berlusconi". Così il pentito spiegando la vittoria di Fi, nel 1994.
Di Filippo, genero del boss Tommaso Spadaro, rimase molto deluso dal fatto che Forza Italia, dopo le elezioni, non rispettò degli "accordi" perché ci si aspettava, in cambio dei voti, interventi legislativi sul regime del carcere duro a cui erano sottoposti diversi boss mafiosi.

Dell’esistenza di un patto tra la mafia e Silvio Berlusconi, Di Filippo fu sicuro dopo le elezioni del 1994, quando ne parlò con il boss Leoluca Bagarella. "Gli ho chiesto perché avessimo votato Berlusconi - ha detto - e mi lamentai delle condizioni di mio suocero (che era detenuto a Pianosa, ndr) e del fatto che nulla fosse cambiato. Lui, parlando del leader di Forza Italia, mi rispose: "Lascialo stare perché in questo momento, mischinazzo, non può fare niente per noi, appena si potrà muovere stai sicuro che farà qualcosa". Da questo io ho capito che Bagarella e Berlusconi avevano fatto un patto".

L’abolizione del carcere duro era, secondo il collaboratore di giustizia, il vero pallino di Cosa nostra. "Le stragi erano state fatte per ricattare lo Stato - ha aggiunto - Questo io l’ho detto nel 1995 quando ho iniziato a collaborare. Gli attentati erano un modo per dire: o si fa come diciamo noi, o continuiamo così. La richiesta principale era l’abolizione del 41bis".

Durante il processo, i legali degli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Mauro Obinu e Giuseppe De Donno, tutti e tre indagati, hanno annunciato un esposto indirizzato al ministro della Giustizia, al vicepresidente del Csm, alla Procura generale della Cassazione, titolare dell'azione disciplinare contro le toghe e alla Procura della Corte dei Conti, competente in caso di danno erariale, con il quale denunciano un lungo elenco di violazioni: indagini infinite, a dispetto dei limiti di legge, deleghe di inchieste delicatissime affidate a investigatori che non avrebbero i titoli, pm che indagano su fatti di mafia nonostante da tempo non facciano più parte della direzione distrettuale antimafia, fughe di notizie, indebite intercettazioni di conversazioni con i difensori, costose rogatorie internazionali e spese eccessive.

L'esposto in realtà non fa nomi e cognomi dei pm che avrebbero commesso le violazioni. Ma una lettura delle sei pagine della denuncia non lascia dubbi: il riferimento è al pool che indaga sulla trattativa e a chi in passato istruì il processo per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, pendente in appello a carico di Mori e del colonnello Mauro Obinu. Il riferimento è ai pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Ma non solo. In ballo viene tirato anche l'ex capo dell'ufficio inquirente, Francesco Messineo, che ha consentito, sempre secondo i legali, che magistrati "scaduti" dalla dda come Di Matteo e Del Bene continuassero a incardinare inchieste di mafia.

Nell'esposto gli avvocati Enzo Musco, Basilio Milio, Giuseppe Saccone e Francesco Romito, chiedono al ministro di inviare gli ispettori al Palazzo di Giustizia di Palermo "per verificare la sussistenza di violazioni di legge e anomalie oggettive e soggettive nell'espletamento delle indagini (che conducono, oltretutto, a duplicazioni di processi assolutamente identici, con dispendio di enormi risorse per lo Stato), per fatti che sarebbero prescritti e nel loro affidamento a soggetti che non sarebbero legittimati a esperirle". Tra le "censure" mosse ai pm i difensori inseriscono l'uso "abnorme" dell'attività integrativa di indagine, che consente alla Procura di procedere negli accertamenti utili anche a termini di indagini scaduti. "E' evidente la violazione del diritto di difesa - dicono - atteso che si è costantemente costretti a inseguire le virate della pubblica accusa, laddove il processo, seppure nella dinamicità della sua natura accusatoria, dovrebbe servire a vagliare la fondatezza di un'ipotesi accusatoria formulata a monte, non continuamente mutevole". Sotto accusa anche l'ascolto delle conversazioni tra gli imputati e i legali e la diffusione delle notizie sulla rogatoria in Sudafrica che ha avuto anche "oneri finanziari non indifferenti per lo Stato".

[Informazioni tratte da ANSA, Corriere del Mezzogiorno, Lasiciliaweb.it]

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20 marzo 2015
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