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La richiesta dei Lo Piccolo: ''Revocateci il 41 bis''

I due boss hanno chiesto di essere ammessi a ''vita comune'' nel carcere come detenuti normali

14 luglio 2008

Trentasette i boss che negli ultimi sei mesi sono stati ''graziati' dal 41 bis, il regime di carcere duro che può essere applicato a quei detenuti i quali si sospetta possano mantere rapporti con l'esterno, anche se in regime di detenzione. Trentasette boss mafiosi che "sono tornati detenuti comuni, nonostante le condanne all'ergastolo e i misteri che ancora custodiscono" (LEGGI).
La notizia, resa nota la scorsa settimana da la Repubblica, ha scatenato un vespaio di polemiche e ha avuto il merito di canalizzare l'attenzione su di una importante norma viziata però da troppe contraddizioni, utile, essenziale per la lotta contro le mafie, ma piena di inadempienze e vuoti che la rendono di fatto inutile. Polemiche e discussioni che hanno portato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, impegnato in queste ultime settimane tra norme "blocca-processi" e "leggi sull'immunità ai potenti dello Stato", ad interessarsi pubblicamente alla questione e a dirsi pronto a predisporre le più idonee modifiche legislative all'attuale 41 bis, così da essere rinnovato e valido sotto tutti i suoi aspetti (LEGGI).

Intanto, mentre l'Ufficio legislativo incaricato dal Guardasigilli lavora sulle nuove possibili vie da introdurre nel regime di carcere duro, i boss Salvatore e Sandro lo Piccolo, padre e figlio, hanno chiesto al giudice di sorveglianza di Milano, dove sono detenuti dal novembre scorso, la revoca del 41 bis che è stato applicato loro, dopo l'arresto, dal ministro di Giustizia, su richiesta dei pm di Palermo.
Il ricorso dei due capimafia sarà discusso dopo domani dall'avvocato milanese Maria Teresa Zampogna. I due boss, che nel periodo della loro lunga latitanza e dopo l'arresto di Bernardo Provenzano stavano rinnovando la mappa mafiosa palermitana nonché pianificando le sorti della futura Cosa nostra siciliana, hanno chiesto di essere ammessi a «vita comune» nel carcere come detenuti normali o, in subordine, di potere accedere a un regime meno severo.

L'eclatante richiesta dei Lo Piccolo ha scatenato una subitanea presa di posizione contraria dalle forze politiche. "Non sia revocato il regime carcerario del 41 bis ai boss mafiosi Salvatore e Sandro Lo Piccolo", è stato l'appello del presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri. "Incoraggiati dalle sconcertanti decisioni pro mafia prese da troppi giudici di sorveglianza, questi due capi cosca confidano in una decisione a loro favore mercoledì prossimo". "Mi auguro che la magistratura sia consapevole della pericolosa ferocia di questi criminali e non cancelli il 41 bis. In ogni caso - ha aggiunto Gasparri - per porre fine a queste situazioni ambigue che favoriscono solo i boss, promuoverò iniziative legislative per ridurre il margine discrezionale così male usato dai giudici di sorveglianza".
"La richiesta avanzata da parte dei Lo Piccolo padre e figlio finalizzata a chiedere ai Magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Milano la revoca del regime del carcere duro va ben oltre il semplice diritto di difesa assumendo, invece, un chiaro significato di sfida rivolta alle istituzioni", ha detto Salvino Caputo, componente della commissione regionale antimafia. "Il loro livello di pericolosità - ha continuato Caputo - la loro posizione di vertici di cosa nostra di Palermo, rappresentano elementi inconfutabili che, al contrario, richiedono un rafforzamento della misura di controllo all'interno del carcere"

E se, pur riconoscendo l'innegabile utilità che il regime di 41 bis ha avuto ed ha nella lotta alla criminalità, è altrettanto innegabile che la riforma di questa norma sia una delle vera priorità che la politica della sicurezza e della giustizia dovrebbe affrontare. Prova ne sono gli episodi riguardanti uno dei più pericolosi boss mafiosi detenuti sotto remine di 41 bis: il boss stragista Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e uno dei capi dei "corleonesi".
Infatti, Bagarella, arrestato nel giugno del 1995 e subito posto sotto regime di carcere duro, durante la sua permanenza al 41 bis nel carcere di Spoleto, è stato protagonista di una serie di episodi violenti: oltre ad aver lanciato il 24 aprile 2005 dell'olio bollente addosso a un altro detenuto, che è un boss della 'ndrangheta, minacciandolo di morte (episodio per il quale è stato condannato a un anno di reclusione dal tribunale di Spoleto), ha pure aggredito il 28 settembre 2006 un agente della polizia penitenziaria. Il capomafia, senza alcuna ragione apparente, si è scagliato contro un assistente della polizia penitenziaria che gli aveva aperto il cancello della camera in cui era rinchiuso. Bagarella, trasferito in seguito nel carcere di Parma, ha proseguito anche in quell'istituto una serie di proteste, minacciando anche il direttore dell'istituto.

Analizzando l'emblematico caso Bagarella, il senatore Carlo Vizzini, Presidente della commissione Affari costituzionali e Rappresentante speciale Osce per la lotta alle mafie transnazionali, ha detto: "E' evidente che dobbiamo affrontare due problemi: il primo problema è quello di trovare una strutturazione della gestione del carcere duro che impedisca non solo le comunicazioni col mondo esterno ma anche la violenza contro gli altri detenuti, contro gli assistenti della polizia penitenziaria e addirittura le minacce nei confronti del direttore dell'istituto [...] Il secondo problema è quello di un regime giuridico che impedisca, come adesso avviene, che si passi dal carcere duro ad un regime meno duro a causa di interpretazioni delle norme che stanno provocando paradossalmente benefici a mafiosi e terroristi".

Intanto, nei giorni scorsi per Leoluca Bagarella è scattato un nuovo ergastolo. Il boss è stato riconosciuto esecutore materiale dell'omicidio di Enzo Salvatore Caravà, assassinato nell'aprile del 1976 a San Cipirello nel palermitano. La condanna a morte per lui era stata decretata perché sospettato di essere coinvolto nel sequestro e nell'uccisione di Luigi Corleo, potente gestore delle esattorie siciliane e suocero di Nino Salvo.
La prima sezione della Corte d'Assise ha deciso la condanna, accogliendo le richieste del pubblico ministero Francesco Del Bene e del legale di parte civile. Per l'omicidio Caravà i giudici hanno assolto il capomafia di San Cipirello Giuseppe Agrigento, e dichiarato la prescrizione del reato per Giovanni Brusca. Il collegio ha inflitto poi dodici anni a Giovanni Brusca per l'assassinio dell'imprenditore di Monreale (Palermo) Pietro La Mantia, ucciso nel 1990, per non aver rispettato le "regole" sugli appalti imposte da Cosa Nostra.

[Informazioni tratte da Corriere.it, La Siciliaweb.it, Adnkronos.com]

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14 luglio 2008
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