La ricostruzione dei fatti sul caso Mastrogiacomo del ministro degli Esteri Massimo D'Alema
''La sera del 5 marzo scorso un giornalista del quotidiano la Repubblica, Vincenzo Nigro, ha informato il capo dell'Unità di crisi del Ministero degli esteri che, dal giorno 4 marzo, erano interrotte le comunicazioni con l'inviato Daniele Mastrogiacomo.
Mastrogiacomo, nell'ultima conversazione telefonica dall'Afghanistan con la redazione, aveva annunciato di avere in programma di recarsi nella provincia meridionale di Helmand per un'intervista ad un capo dei talebani.
Sottolineo che, da lungo tempo, l'Unità di crisi della Farnesina, l'ambasciata a Kabul ed il Sismi avevano segnalato l'elevato rischio di sequestri di persona in Afghanistan e nelle province meridionali. In particolare, tale rischio era stato reso pubblico insieme all'invito per i connazionali ad evitare le zone più esposte del paese. Nella regione, peraltro, era stata appena avviata un'importante operazione militare della coalizione, denominata Achille, con conseguente elevamento del rischio per chiunque si trovasse ad operare, a lavorare e a transitare nella regione.
Fin da subito la notizia del rapimento di Mastrogiacomo è stata portata a conoscenza del Presidente del Consiglio e dei servizi di informazione ed il caso è stato seguito con la massima attenzione - come avviene normalmente - dall'Unità di crisi della Farnesina.
Inoltre, la dottoressa Belloni, responsabile dell'Unità di crisi, ha immediatamente informato - come da prassi - del possibile rapimento di Daniele Mastrogiacomo il sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma e capo del pool antiterrorismo, dottor Franco Ionta, per le vie brevi subito e successivamente con comunicazione formale.
Gli organi di stampa hanno in un primo tempo dato notizia del sequestro di un giornalista britannico e di due accompagnatori afgani, tutti accusati di spionaggio. I nomi dei due afgani coincidevano con quello dell'autista e dell'interprete di Mastrogiacomo. In effetti, Mastrogiacomo e i suoi assistenti afgani vennero accusati di spionaggio a favore delle forze inglesi, anche dopo che la vera identità del giornalista italiano diventò chiara. Bisogna anche dire che le modalità della cattura - sono stati catturati pressoché subito - hanno dato la sensazione che il gruppo fosse atteso sulla base di previe segnalazioni, atteso e valutato come un gruppo con finalità non giornalistiche, ma di natura spionistica.
Avuta la certezza del rapimento, si stabiliva la necessaria concertazione tra Presidenza del Consiglio, Ministero degli Esteri, servizi di informazione e Difesa. Tale concertazione sarebbe rimasta operativa fino alla conclusione della vicenda. Uno stretto raccordo operativo veniva anche attivato con il quotidiano la Repubblica e con i familiari del Mastrogiacomo, puntualmente informati di tutti gli sviluppi del caso.
Avuta conferma del rapimento, a partire dal 6 marzo, il Governo italiano chiedeva la collaborazione del Governo afgano per assicurare una rapida e contemporanea liberazione dei tre ostaggi e perché venissero messe in atto tutte le possibili misure per assicurare la loro incolumità. L'ambasciatore a Kabul incontrava a questo fine il ministro degli esteri afgano, che assicurava il massimo impegno delle autorità. In modo conseguente il Governo afgano ha in effetti garantito piena collaborazione all'Italia in tutto il periodo, fino ovviamente alla liberazione dell'ostaggio Daniele Mastrogiacomo.
Sempre il 6 marzo, il Sismi informava il Governo di aver acquisito indicazioni precise dai servizi collegati circa la localizzazione degli ostaggi. Nelle ore immediatamente successive al sequestro il gruppo dei rapitori si era apparentemente spostato insieme agli ostaggi nella località Nadali, verso sud, a ridosso del confine con il Pakistan.
Nelle ore successive il Sismi segnalava inoltre la possibilità, offerta dalle forze della coalizione ISAF, di effettuare, previa autorizzazione da parte del Governo italiano, un'azione di forza con la partecipazione di forze speciali, anche del nostro paese, per tentare la liberazione dei rapiti prima che i sequestratori potessero, come si temeva, sconfinare in territorio pakistano. Tale possibilità non veniva scartata del tutto dal Governo e, dunque, veniva anche predisposta successivamente. Tuttavia, in linea con la prassi seguita nei casi precedenti, si preferivano esplorare, intanto, gli spazi per una soluzione negoziale, così da non esporre a rischio la vita degli ostaggi. Il ricorso all'uso della forza sarebbe stato considerato solo in caso di fallimento o impossibilità di trattative. Allo stesso tempo, il Governo escludeva la via di trattative fino a quando non fossero state acquisite prove certe dell'esistenza in vita degli ostaggi, chiedendo agli organi di informazione di astenersi dal diramare notizie non accertate nel merito e nell'attendibilità delle fonti.
Dalle informazioni più attendibili raccolte, incluse rivendicazioni di portavoce dei talebani riprese dalla BBC, il sequestro sembrava riconducibile al gruppo facente capo al mullah Dadullah, responsabile delle operazioni militari dei talebani nelle province a sud-ovest dell'Afghanistan. Le informazioni indicavano che si trattava di un gruppo particolarmente determinato e addestrato in tecniche di guerriglia e combattimento, praticate in passato con particolare efferatezza. Il mullah Dadullah, nato nel 1966, e attivo fin dagli anni Ottanta, già prima del 2001 era una delle dieci personalità più importanti tra i talebani, ritenuto responsabile di numerosi esecuzioni e capace di un uso spregiudicato dei mezzi di informazione.
Il 7 marzo, mentre il Governo cominciava a sondare con attenzione la possibilità di trattativa, avvalendosi della già citata rete del Sismi, emergevano canali in grado di stabilire contatti diretti con questo gruppo di talebani. Da una parte l'organizzazione non governativa Emergency, che si dichiarava disponibile a mettere a disposizione, attraverso il personale operante presso l'ospedale di Lashkar-Gah, un canale utile ad avviare una trattativa per il rilascio degli ostaggi. Sondato dal Governo, Gino Strada, assicurava il massimo impegno della sua struttura per la liberazione dei rapiti, pur esprimendo preoccupazioni per il rischio di interferenze da parte di attori locali o italiani. Dall'altra parte, la redazione de la Repubblica comunicava che attraverso canali giornalistici esisteva la possibilità di un'altra via di contatto con i rapitori. Questo canale è stato operante nel corso di tutta la vicenda e, dunque, i contatti si sono svolti attraverso una pluralità di canali, anche allo scopo di controllare le informazioni, di controllarne la fondatezza, lavoro che è stato fatto, ovviamente, dall'unità di crisi della Farnesina, ma con la presenza e la responsabilità del Sismi, che ha affiancato i canali esistenti in loco con proprie strutture e propri funzionari e tale affiancamento si è protratto fino al giorno del rilascio di Mastrogiacomo. Questi canali sono stati usati in modo costantemente complementare.
La prima richiesta dei talebani veniva resa nota proprio attraverso il canale alternativo a quello di Emergency: ci si informava da Kandahar che il portavoce Yusuf aveva richiesto per il rilascio degli ostaggi la liberazione di quindici detenuti, fra i quali tre definiti portavoce dei talebani. Il Governo replicava, per il medesimo tramite, che nessuna rivendicazione sarebbe stata presa in considerazione senza la prova dell'esistenza in vita degli ostaggi. Sia il canale di Emergency sia gli altri entravano in possesso di elementi sulla sopravvivenza degli ostaggi: ciò è avvenuto il 10 marzo. Alle condizioni inizialmente avanzate dai talebani per il rilascio degli ostaggi si aggiungevano, però, la richiesta del ritiro delle truppe italiane dall'Afghanistan e l'annuncio di un ultimatum.
Dopo le prime richieste dei talebani, il 13 marzo mi sono recato personalmente alla procura della Repubblica presso il tribunale di Roma, dove ho incontrato il procuratore capo Ferrara e il sostituto procuratore Ionta, per informarli sugli sviluppi degli avvenimenti, per conoscere il mandato che era stato affidato, nel frattempo, ai carabinieri del ROS a Kabul, in relazione al rapimento in corso, e per sottolineare la necessità di un coordinamento dell'azione istituzionale, in particolare delle azioni istituzionali che si svolgevano all'estero, e cioè in Afghanistan. La procura assicurava ampia collaborazione.
Il 14 marzo Emergency riceveva e recapitava un video di Mastrogiacomo e del suo interprete Adjimal, risalente al 12 marzo, ampiamente poi diffuso dagli organi di stampa. A quel punto il canale Emergency sembrava disporre dei contatti indispensabili per una mediazione sul rilascio, anche data la rete di conoscenze maturate dalla ONG nell'area per la sua opera umanitaria, nonché la collaborazione prestata in occasione del rapimento del reporter Torsello. Indubbiamente Emergency, essendo l'organizzazione che gestisce un importante ospedale nella periferia di Lashkargah, senza il minimo dubbio dispone dell'insediamento più significativo nell'area in cui si svolgevano i fatti e di collegamenti più ramificati, anche in ragione dell'opera assistenziale che viene svolta in quella provincia.
Restava parallelamente aperto il canale alternativo, utile a verificare via via le informazioni e a potere esercitare un controllo sullo sviluppo degli avvenimenti. La ricerca di una soluzione che garantisse la vita degli ostaggi finiva insomma per imporre come scelta preferenziale l'utilizzo del canale umanitario, come del resto era avvenuto in casi analoghi nel passato.
Il 15 marzo l'agenzia di stampa afghana Pajhwok diffondeva un messaggio audio, in cui Mastrogiacomo confermava l'esistenza di un ultimatum con scadenza dopo due giorni. Lo stesso 15 marzo il direttore de la Repubblica, Ezio Mauro, rivolgeva un appello ai rapitori, affinché venisse concesso tempo adeguato. Il giorno successivo poi io stesso ho rivolto pubblicamente un analogo appello.
Da diverse fonti intanto venivano resi noti tre nominativi di detenuti talebani, anziché i quindici originariamente richiesti. Nel frattempo la richiesta del ritiro delle truppe italiane dall'Afghanistan era caduta, peraltro richiesta che non avrebbe potuto essere considerata ricevibile, come da subito fu chiarito da parte nostra. Dunque si veniva precisando una base più realistica per un possibile negoziato.
Era nel frattempo continuato, attraverso l'ambasciata d'Italia a Kabul, il dialogo con le autorità afgane circa la disponibilità a collaborare per il rilascio degli ostaggi. I contatti con il Governo, con le autorità locali e con i servizi di sicurezza afgani, anche ad opera del Sismi, hanno coinvolto lo stesso Presidente del Consiglio, il quale ha più volte parlato con il Presidente Karzai, anche nel corso del viaggio di quest'ultimo a Berlino e a Parigi, che si è svolto tra il 17 e il 19 marzo. In tale contesto, l'ammiraglio Branciforte, direttore del Sismi, si era dimostrato fiducioso circa la possibilità di sensibilizzare anche il Presidente della Camera bassa del Parlamento afgano, Yunus Kanouni.
Il 15 marzo, in occasione di una visita in Italia di una delegazione del Parlamento afgano, guidata dallo stesso Kanouni, io stesso, insieme al direttore del Sismi, in un incontro ristretto alla Farnesina, abbiamo chiesto il suo impegno e il suo interessamento per una soluzione positiva: impegno ed interessamento che ci sono stati garantiti e che vi sono stati. A quel punto - ed è il passaggio che desidero sottolineare - il Governo ha dovuto compiere una scelta. Si trattava di scegliere se chiudere ogni spazio di mediazione o se trasferire al Governo afgano, quale unico potere legittimo in grado di decidere in merito alla scarcerazione di detenuti in Afganistan, la richiesta fatta pervenire dai talebani attraverso il canale umanitario. Ed è quello che noi abbiamo scelto di fare: trasferire al Governo afgano tali richieste, perché esse potessero essere valutate.
La situazione diveniva ancora più palesemente drammatica al momento in cui, il 16 marzo, un portavoce di Dadullah, Atal, attraverso l'agenzia pakistana Pajhwok annunciava la notizia della barbara uccisione, da parte dei talebani, dell'autista Sayed Agha, accusato di spionaggio.
Il 17 marzo, il Governo Karzai decideva il rilascio di due dei tre talebani di cui era stata chiesta la scarcerazione, i quali venivano consegnati direttamente dai servizi afgani al personale di Emergency, a Lashkargah. Il terzo risultava già essere libero e, probabilmente, in Pakistan, secondo quanto riferito dal capo dei servizi di informazione. Mentre, un altro detenuto, chiesto in sua sostituzione, si opponeva al provvedimento di liberazione, avendo pressoché ultimato il periodo di carcerazione ed essendo probabilmente preoccupato per la sua incolumità, in relazione alla collaborazione offerta alle autorità afgane.
Bisogna dire che la collaborazione del Governo afgano, che è stata pronta nel corso di tutta questa vicenda, è anche legata ad una valutazione circa la limitata pericolosità dei detenuti di cui si era chiesta la liberazione, diversi dei quali presentati come portavoce e non come forze combattenti del movimento talebano. Comunque, non spettava a noi - né avremmo avuto la possibilità di farlo - compiere tali valutazioni, che sono state effettuate dal Governo afgano. È apparso chiaro fin dal primo momento che le richieste non incontravano particolari difficoltà o problemi. Ciò appare chiaro da tutte le comunicazioni tra i Governi italiano e afgano, che sono, d'altro canto, ampiamente documentate.
Il 18 marzo, Gino Strada comunicava che da parte dei rapitori era stata avanzata la richiesta di liberare altri tre detenuti. Si innescava, così, un rischiosissimo gioco al rialzo. Il Presidente Prodi ne informava Karzai, il quale ritenne accettabile un ulteriore rilascio. A quel punto, tuttavia, il Governo italiano chiedeva a Gino Strada che la consegna effettiva dei tre rilasciati avvenisse, questa volta, in cambio della liberazione effettiva e contestuale dei due ostaggi - di entrambi, lo ripeto - ancora nelle mani dei rapitori. Parallelamente, il Ministero degli affari esteri chiedeva il silenzio stampa per non mettere in pericolo l'esito finale della liberazione.
Gino Strada comunicava, il 19 marzo, che gli ostaggi erano stati liberati e che sarebbero stati trasferiti all'ospedale di Emergency, a Lashkargah. Il rientro di Mastrogiacomo da Lashkargah a Kabul - dove, prima di essere consegnato all'ambasciatore italiano, avrebbe dovuto partecipare ad una conferenza stampa organizzata dallo stesso Strada - sarebbe dovuto avvenire a cura di Emergency per il tramite di un aereo messo a disposizione dalla ONG.
Nella prima mattinata del 20 marzo, l'ambasciata a Kabul informava di aver appreso dallo stesso Strada che l'aereo di Emergency non avrebbe potuto atterrare a Lashkargah. Il Governo riteneva di non poter attendere i tempi che la gestione da parte di Emergency avrebbe comportato, tempi quanto mai incerti anche a causa dell'assenza di voli civili che coprissero la tratta Lashkargah-Kabul e dei crescenti pericoli. Si chiedeva, pertanto, al SISMI di chiedere l'assistenza dei servizi collegati afgani ed alleati per organizzare, con mezzi militari, il trasferimento a Kabul dei due ostaggi appena liberati. Il Sismi, con la collaborazione delle forze armate britanniche, ne organizzava il trasporto in elicottero dal PRT inglese all'aeroporto Isaf sotto il comando britannico di Camp Bastion e di qui a Kabul con un C 130 dell'aeronautica militare italiana. A Kabul, Mastrogiacomo veniva imbarcato su un volo della Presidenza del Consiglio per Roma, dove giungeva a tarda sera.
Secondo quanto riferito dallo stesso Mastrogiacomo, al momento della sua liberazione era stato messo in libertà anche l'interprete Nashkbandi. Infatti, il giornalista de la Repubblica aveva dichiarato di avere personalmente visto i rapitori scioglierlo dalle catene e lasciarlo andare via. Solo successivamente emergeva che il Nashkbandi non solo non era stato condotto all'ospedale di Emergency, a Lashkargah, ma non aveva neppure fatto rientro dai propri familiari, come si era pensato in un primo aumento. Nei giorni successivi, si è fatto sempre più fondato il sospetto, poi confermato dalle stesse autorità afgane e dai familiari, che il rilascio dell'interprete fosse stato un falso rilascio o che egli sia stato successivamente catturato dallo stesso o da un altro gruppo. Il nostro ambasciatore a Kabul aveva successivamente appreso, nei frequenti contatti intrattenuti con i familiari di Nashkbandi, che l'interprete avrebbe fatto loro una telefonata, dichiarando di essere ancora nelle mani dei rapitori - ma questo dopo due giorni dagli avvenimenti che sto descrivendo - e chiedendo il massimo impegno per un suo rapido rilascio.
Questa vicenda appare, quindi, per il modo in cui si è svolta, abbastanza confusa e misteriosa, né noi abbiamo elementi per chiarirne l'effettiva dinamica, e cioè cosa sia accaduto dal momento in cui i due ostaggi sono stati formalmente liberati al momento in cui si è riscontrato - ripeto, dopo un periodo, non di ore, ma di due giorni - che, invece, effettivamente l'interprete di Mastrogiacomo era ancora nelle mani di un gruppo talebano.
Tengo qui a ribadire che, in ogni momento di questa delicatissima vicenda, la liberazione dell'interprete afgano era considerata da parte nostra, così come da parte del Governo Karzai, elemento integrante della trattativa di Emergency con i talebani.
Il Governo italiano veniva poi a conoscenza dell'arresto da parte dei servizi segreti afgani, sempre nella mattinata del 20 marzo, del dipendente di Emergency, Rahmatullah Hanefi, del quale Strada si era avvalso per i contatti con il capi talebani. Per il tramite dell'ambasciata a Kabul, è stato da allora chiesto di conoscere i motivi della detenzione e le condizioni di salute del detenuto, su cui si erano diffuse notizie allarmanti. In varie occasioni, l'ambasciatore Sequi ha chiesto di poter visitare Hanefi, oltre ad elementi sulle motivazioni dell'arresto. Pur nel rispetto della responsabilità primaria del Governo afgano nei confronti dei propri cittadini e della consapevolezza della delicatezza della situazione, in tutti questi giorni, da parte italiana, si è continuato a chiedere un chiarimento sulle ragioni che hanno condotto all'arresto del dipendente di Emergency, Rahmatullah Hanefi. In data 1° aprile, a seguito delle nostre pressioni, un rappresentante della Croce Rossa Internazionale ha ottenuto l'autorizzazione a visitare tra Rahmatullah in carcere. L'incontro si è svolto, come confermato dal rappresentante della Croce Rossa allo stesso ambasciatore italiano, nel pieno rispetto degli standard internazionali della Croce Rossa.
Siamo arrivati così agli sviluppi, anch'essi tragici, di questi ultimi giorni. Il 6 aprile, i talebani hanno fissato un ultimatum nei confronti del Governo Karzai per il rilascio di altri prigionieri, in cambio della liberazione di Adjimal Nashkbandi, con scadenza lunedì 9 aprile. La minaccia è stata ribadita l'8 aprile e, nel corso della stessa giornata, è stata diffusa dal portavoce del comandante talebano Dadullah, che si chiama Shahabuddin Atal, la notizia dell'esecuzione dell'interprete nel distretto di Garmsir, nella provincia di Helmand, prima della scadenza dell'ultimatum fissato dai talebani stessi.
Il Governo italiano ha appreso, con angoscia, la notizia della barbara uccisione dell'interprete. L'esecuzione è avvenuta prima della scadenza dell'ultimatum che i talebani avevano fissato e nonostante il fatto che, nelle intese raggiunte per la liberazione di Mastrogiacomo, fosse prevista ed accettata anche dal comandante Dadullah la liberazione dell'interprete. Il Presidente del Consiglio, inoltre ha espresso, come sapete, alla famiglia dell'interprete e al popolo afgano la vicinanza del Governo e del popolo italiano.
Il 10 aprile, organi di informazione hanno ripreso nuove e pesanti accuse del capo dei servizi afgani, Amrullah Saleh, sia verso Rahmatullah Hanefi, sia verso la stessa Emergency, asserendone la complicità con i talebani.
Ieri, 11 aprile, il personale italiano di Emergency ha lasciato temporaneamente l'Afghanistan e Gino Strada ha reso noto, sia all'ambasciatore a Kabul che al capo dell'unità di crisi, che il provvedimento di trasferire il personale internazionale fuori dal territorio afgano è al momento una misura temporanea e che la strategia dell'organizzazione, per quanto concerne le attività che svolge in Afghanistan, verrà definita nelle prossime ore.
Noi siamo ben consapevoli dell'opera preziosa svolta da Emergency in un contesto molto difficile ed anche pericoloso. Non possiamo che auspicare che possano presto ristabilirsi le condizioni per la ripresa della sua attività in territorio afghano. Nello stesso tempo, assicuro che il Governo italiano continuerà ad insistere - questo possiamo fare - perché siano rese note, in modo trasparente, le accuse rivolte ad Ramatullah Anefi e perché egli possa essere giudicato, se sarà necessario, nel modo più rapido e con le garanzie previste in casi di questo tipo.
Questo può sostanzialmente fare il Governo italiano e non può certamente liberare Ramatullah Anefi, il quale è accusato dalle autorità del suo paese di reati. Tuttavia quello che potevamo fare, vale a dire assistere dal punto di vista umanitario, garantire che il detenuto fosse incontrato e visitato dalla Croce rossa internazionale, insistere perché contro di lui, se sarà necessario, si proceda con tutte le garanzie previste, lo abbiamo fatto con assoluta puntualità e direi anche con qualche, sia pure limitato, risultato''.
Fonte: Agenzia Internazionale Stampa Estero