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La "sbirritudine" di Provenzano

Le parole del pentito Nino Giuffrè al processo per la trattativa Stato-mafia

22 novembre 2013

E’ ripresa ieri nell'aula bunker dell'Ucciardone, l'udienza del processo per la trattativa fra Stato e mafia davanti alla Corte d'assise. Quella di ieri è stata la prima udienza dopo i giorni nei quali sono emerse le minacce di morte che il boss Totò Riina ha rivolto al pm Antonino Di Matteo dalla sua cella del carcere milanese di Opera, dove è rinchiuso. Le minacce hanno indotto ad alzare ulteriormente il livello d'attenzione sui magistrati che reggono l'accusa nel processo che vede imputati uomini di Cosa nostra, politici ed ex ufficiali dei carabinieri.
Di Matteo non era in aula. L'accusa è stata rappresentata dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Nell'aula bunker anche don Luigi Ciotti, presidente di Libera. "Sono venuto qui - ha detto - per dire ai magistrati del processo per la trattativa tra Stato e mafia che non sono soli. Libera si è costituita parte civile e segue tutte le udienze - ha detto ancora don Ciotti - tutta la società civile deve sentire la responsabilità di sostenere tutti i magistrati impegnati nella ricerca della verità".

All’udienza ha partecipato anche il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo. "Ho deciso di venire questa mattina - ha detto Messineo - per espressa volontà dei colleghi della Procura con i quali ci siamo riuniti ieri per esprimere la solidarietà dell'intero ufficio al pm Nino Di Matteo e a tutti i magistrati dell'accusa che sono stati minacciati pesantemente da Totò Riina". "Sono venuto io - ha detto ancora - in rappresentanza di tutto l'ufficio, perché sarebbe stata improponibile la partecipazione all'udienza di tutti i pm della Procura. Ma tutti insieme, attraverso la figura del procuratore che rappresenta l'ufficio all'esterno, abbiamo voluto esprimere la nostra vicinanza ai colleghi".

L’udienza di ieri è stata dedicata alle deposizione del collaboratore di giustizia Nino Giuffré. "Nel '91 partecipai alla famosa riunione della resa dei conti di Cosa nostra - ha raccontato Giuffrè riferendosi alla dichiarazione di guerra pronunciata dal boss Totò Riina - dove si decise l'eliminazione dei politici ritenuti inaffidabili, come Lima, i Salvo, Mannino, Vizzini e Andò, e i magistrati ostili come Falcone e Borsellino".
Giuffrè ha anche raccontato che dal 1987 la mafia spostò i suoi voti dalla Dc al Psi e ai Radicali. "Dopo la riunione - ha aggiunto - iniziò una politica di aggressione a chi veniva considerato un traditore". La riunione della resa dei conti avvenne a dicembre del '91, poco dopo la cassazione confermò gli ergastoli del maxiprocesso. "Fu la goccia che fece traboccare il vaso", ha detto Giuffrè. "Ma già a dicembre si vociferava che la sentenza sarebbe andata male".

"Nel '93, dopo le stragi di Falcone e Borsellino incontrai Provenzano. Era un altro uomo: aveva adottato la strategia del 'calati iunco che passa la piena'. Aveva un atteggiamento da 'vergine' come se le colpe di quanto fosse accaduto fossero solo di Riina", ha continuato Giuffré. "Provenzano - ha aggiunto - mi disse che si doveva mettere da parte l'attacco frontale allo Stato perché contro lo Stato si perde. Mi disse di non fare scruscio (rumore, ndr) e tornare ai discorsi antecedenti al cataclisma perché in sei o sette anni di questa strada ne saremmo usciti fuori".
Ma l'ala provenzaniana, dopo l'arresto di Riina, si contrappose a quella di Luca Bagarella, Giovanni Brusca e altri fedelissimi di Riina che proseguirono l'attacco allo Stato con omicidi e con le bombe del '93. "Noi vivemmo quel momento quasi con paura - ha detto Giuffrè - perché le stragi avevano addirittura superato il Continente".

La cattura di Riina sarebbe stata oggetto di una trattativa avviata tra il boss Bernardo Provenzano e una parte dello Stato: "L'arresto del boss stragista fu il prezzo pagato da Cosa nostra - ha spiegato Giuffrè - a quella parte di Stato che per alcuni versi aveva avuto una vicinanza con la mafia". In sostanza Provenzano avrebbe consegnato prima Riina, poi gli altri boss che facevano parte della frangia sanguinaria di Cosa nostra. Un disegno che, secondo il pentito, avrebbe portato ai politici che erano nella lista nera della mafia, che li riteneva traditori, più serenità, visto che erano finiti in cella i boss stragisti, e alla mafia "benefici e un allentamento delle maglie repressive".

"Dopo l'arresto di Riina nel nostro gruppo si pensava che qualcuno l'avesse venduto e che non avessero disposto la perquisizione della sua casa per non trovare tracce, documenti. Alcuni di noi avevano il sospetto che Provenzano possa avere avuto rapporti con gli sbirri. Io non avevo notizie ufficiali, era una voce che girava da tempo. Negli anni '80 i vecchi di Cosa nostra dicevano di stare attenti a Provenzano sia per le tragedie che per la sbirritudine". "Io misi insieme quelle voci - ha aggiunto - con quelle identiche che c'erano negli anni '90 che venivano anche da Catania. Si parlava anche di vicinanza agli sbirri della moglie di Provenzano: cioè si diceva che Provenzano ha dato notizie agli sbirri attraverso la moglie".

Intanto, dalla Corte europea dei diritti umani è arrivato il respingimento al ricorso presentato dal legale di Provenzano. Il boss può restare in carcere e può continuare a essere sottoposto al regime del 41bis. La Corte europea ha dunque rifiutato di applicare a Provenzano, così come richiesto dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, la regola 39, con cui i giudici ingiungono a un Paese membro di prendere immediate misure per eliminare o impedire la violazione dei diritti di un ricorrente. In genere questa regola viene utilizzata dalla Corte di Strasburgo per fermare l'estradizione di qualcuno dal territorio di uno dei 47 Stati membri del Consiglio d'Europa. Secondo le informazioni raccolte, la Corte di Strasburgo ha rifiutato la richiesta dell'avvocato di Provenzano perché non ha ritenuto, in base agli elementi in suo possesso, che il boss sia in condizioni tali da dover essere scarcerato o sottoposto a regime diverso da quello del 41 bis. Resta tuttavia pendente davanti alla Corte un altro ricorso presentato dal legale di Provenzano con cui si chiede la condanna dell'Italia per aver sottoposto il boss a trattamento inumano e degradante.

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22 novembre 2013
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