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Laurearsi per un futuro di disoccupazione

Anche l'Istat conferma la tendenza: il 60% dei laureati non riesce a trovare un impiego

17 maggio 2006

La dicotomia laureato-disoccupato è così fortemente radicata nel tessuto socio-culturale italiano da essere diventato uno de tanti assodati costumi comuni, come se per assicurarsi una certa disoccupazione futura bisogni prima studiare tanti anni (preferibilmente con sacrificio), e laurearsi (preferibilmente col massimo dei voti).
Ogni anno sono tantissime le ricerche che denunciano l'ormai classico e progressivo aumento dei  ''disoccupati intellettuali'' e dell'altrettanto riconosciuto alto numero di coloro che sono disposti ad emigrare pur di mettere a frutto i propri studi. Ai dati di queste ricerche annuali, che sovente vengono tacciate di parzialità politica, ora si sono affiancati anche quelli dell'Istat, l'istituto di statistica al quale si fa riferimento come organo di sicura imparzialità ed equidistanza, dati raccolti nell'indagine campionaria (Inserimento professionale dei laureati: indagine 2004) su oltre 25 mila soggetti laureatisi nel 2001.
Ecco, i numeri che vengono fuori dall'Istat ci dicono, per esempio, che i fortunati laureati che riescono a raggiungere il sospirato traguardo e svolgono un lavoro continuativo iniziato dopo tre anni dalla laurea sono sempre meno: il 56,4 per cento del totale.

Secondo l'istituto nazionale di statistica nel 2004 i disoccupati ammontavano al 14,5 per cento di coloro che avevano raggiunto, nel 2001, il titolo di 'dottore'.
Tre anni prima, nel 2001, le cose andavano decisamente meglio. I dottori che erano riusciti ad avere un impiego continuativo ammontavano al 63,2 per cento mentre quelli alla ricerca di una attività più stabile, dopo avere studiato per anni (sicuramente con tanti sacrifici e laureatisi col massimo dei voti), erano poco più di 12 su 100. La restante parte lavorava già prima di laurearsi, arrangiandosi perlopiù con lavoretti precari o non aveva nessun interesse a trovarne un impiego (contenti loro).

Un quadro del genere sembra suggerire che il titolo di studio che fino a vent'anni fa assicurava l'inserimento nel mondo del lavoro, il famoso ''pezzo di carta'', stia perdendo efficacia.
Nel dopoguerra chi si laureava era certo di trovare lavoro, e con molto facilità anche prestigioso. Trent'anni dopo le cose erano già cambiate, ma bastava impegnarsi un poco per trovare un buon impiego, bisogna ricordare che proprio tra gli anni '50 e gli anni '70 andava affermandosi con sempre maggiore vigore la cattiva usanza della raccomandazione, infatti l'"impegnarsi un poco" menzionato poco prima spesso stava a significare riuscire a trovare ''la giusta spinta''.
Oggi, invece, cresce il numero di giovani che si deve accontentare di lavori stagionali o addirittura precari, manco la raccomandazione garantisce come prima la sicurezza posto fisso, anche se, e di questo ne parleremo avanti, in molti continuano ad affidarsi proprio a questa.
Quindi, restano in tanti alla ricerca di una sistemazione stabile per anni: qualcosa - stima l'Istat - come 20 mila ragazzi che hanno tagliato il nastro della laurea nel 2001.

E sono proprio i numeri dell'Istat che aiutano a comprendere bene le dimensioni del fenomeno. Indicativo, ad esempio, il dato che mette in relazione il tipo di lavoro svolto e il titolo di studio conseguito: un intervistato su tre dichiara che, nonostante la laurea, il titolo non è necessario per la mansione svolta. E restano (come sempre) ancora le donne a pagare il prezzo più alto della disoccupazione col 15,4 per cento in cerca di lavoro a tre anni dalla laurea. Se poi ci si sposta al Sud (e qui ci scontriamo ancora una volta con la strasolita realtà risaputa) i numeri diventano davvero imbarazzanti: tasso di disoccupazione dei laureati, sempre nel 2004, al 30 per cento (quasi 5 punti in più rispetto al 2001) che sale al 37,2 per le donne.

Certo, ai fini dell'inserimento nel mondo del lavoro non tutti i diplomi di laurea sono uguali. I giovani ingegneri, con l'81,6 per cento già a lavoro, soffrono meno degli altri, seguiti dai laureati del cosiddetto gruppo chimico-farmaceutico. E a parte i medici, impegnati nella specializzazione post laurea, le cose si complicano parecchio per i laureati del gruppo giuridico (41,6 per cento con un lavoro continuativo iniziato dopo la laurea) e per quelli di Scienze motorie, solo in 2 su 10 a lavoro.

A questo punto, dopo aver raggranellato qualche numero, non ci rimane che porci qualche domanda solo per avere, un resoconto finale....
Per esempio... Quale sarebbe il modo più sicuro per trovare lavoro? Trenta su 100 giurano di avere inviato un 'curriculum ai datori di lavoro', in 20 (seconda modalità in assoluto) non nascondono di avere trovato lavoro per mezzo della 'conoscenza diretta del datore di lavoro o per segnalazione di un parente o un conoscente'. Come accennavamo prima, la raccomandazione forse non funziona più come prima ma sembra sia ancora uno dei metodi di reclutamento preferiti in Italia, visto la percentuale di coloro che hanno dichiarato di avere trovato un lavoro 'attraverso' un ufficio o una agenzia di collocamento è bassissima: appena il 4 per cento.
Ma chi lavora è soddisfatto? E quanto guadagna? La maggior parte (88,7 per cento) si dichiara 'molto o abbastanza soddisfatto' del grado di autonomia raggiunto. Meno, solo il 61,9 per cento, della paga mensile, che per 7 su 100 non arriva a 800 euro e per 4 su 10 non supera i 1.100 euro al mese.
E infine, ci poniamo una domanda che a qualcuno magari sembrerà banale e invece...
Ma i disoccupati, a cosa aspirano? I più desiderano un lavoro dipendente e a tempo pieno. E pur di lavorare sono disposti (quasi l'80 per cento) a cambiare città spostandosi anche all'estero (38,2 per cento), se serve. La maggior parte di loro (il 76 per cento) non pretende neppure stipendi da capogiro (tra i 1.100 e i 1.500 euro al mese) e addirittura uno su 10 si accontenterebbe di guadagnare meno di 800 euro.
Insomma, si vuole solo e semplicemente guadagnarsi la pagnotta e mantenere integra la dignità, perché (e scusateci tanto l'espressione retorico-populista) poter lavorare è potersi guardare allo specchio senza vergognarsi.  [informazioni tratte da un articolo di Salvo Intravaia pubblicato su Repubblica.it]

- I laureati e il mercato del lavoro (indagine Istat)

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17 maggio 2006
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