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Le stragi di mafia degli Anni '90

Dai processi, a Palermo e Firenze, sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra

17 febbraio 2011

"Mai nessuno mi parlò di trattativa: interpretai quelle parole del Capitano De Donno come un normale tentativo di far collaborare Vito Ciancimino". Liliana Ferraro, già direttore generale del Ministero di Grazia e Giustizia durante la gestione di Claudio Martelli, ha ricostruito ieri sera davanti alla Commissione antimafia la vicenda dei contatti avuti con gli ufficiale del Ros e più, in generale, la sua esperienza accanto a Giovanni Falcone e al ministro Martelli.
La Ferraro ha detto di aver incontrato il Capitano De Donno in aereo, sulla tratta Roma-Palermo e, dopo l'uccisione del giudice Falcone, riferì il tutto al giudice Paolo Borsellino nel corso di un incontro avvenuto il 28 giugno del '92 all'aeroporto di Fiumicino. "Borsellino non mostrò di dare eccessivo peso alla questione. Mi rispose con un 'ci penso io'".
L'incontro con De Donno avvenne a cavallo delle due stragi del '92. Il Capitano del Ros espresse l'idea che si dovessero scoprire a tutti i costi gli autori delle stragi di Capaci e che lui pensava che si potesse fare un tentativo con il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, cioé Massimo Ciancimino, che doveva essere il tramite per poter verificare questa possibilità. Il tentativo era quello di "agganciare Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo. Loro, e con ciò intendo il Ros, volevano che lo dicessi al ministro Martelli per avere un conforto politico". La cosa, ha precisato la Ferraro, venne subito riferita al ministro.

La scorsa settimana la Procura generale presso la Corte di Cassazione ha deciso che l'indagine a carico dell'ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno (coinvolto nelle vicende relative alla trattativa tra Stato e mafia che vede indagati, tra gli altri, anche l'ex comandante del raggruppamento speciale dell'arma Mario Mori e i capimafia Totò Riina, Bernardo Provenzano e Gaetano Cinà) rimarrà a Palermo. La Procura generale, infatti, ha respinto la richiesta di spostare la competenza dell'indagine dal capoluogo siciliano a Roma. L'istanza già respinta dalla Procura di Palermo era stata appellata dall'indagato in Cassazione. La Procura generale della Cassazione, contrariamente a quanto ritenuto da De Donno, che sosteneva che le condotte a lui contestate si erano svolte a Roma, e che quindi Palermo sarebbe stata incompetente a indagare, ha stabilito che dagli atti di indagine trasmessi dalla Dda si evincono una serie di condotte poste in essere dagli indagati non riducibili solo al colloquio, citato nel ricorso da De Donno, tra l'ex ufficiale e l'allora direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia Liliana Ferraro. Inoltre, secondo la Procura generale della Cassazione l'ipotesi di reato di associazione mafiosa contestata ad alcuni indagati dello stesso procedimento "incardina" la competenza ad indagare nella Dda di Palermo anche in presenza di fattispecie criminose diverse dall'associazione mafiosa, comportando una deroga ai criteri di competenza territoriale fissati dal codice di procedura penale.

Passando alle stragi mafiose del 1993, martedì scorso a Firenze è stato sentito come teste nel corso del processo a carico del boss Francesco Tagliavia, l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. "A me non risultano assolutamente che ci siano state delle intese, delle trattative tra Stato e mafia. L'idea che io possa essere sospettato anche lontanamente di una vicinanza mafiosa mi offende profondamente", ha detto Conso.
Interrogato più volte sulle presunte trattative tra spezzoni dello Stato e Cosa nostra per ottenere la revoca del carcere duro, previsto dal 41 bis, a circa 1.100 detenuti mafiosi, l'ex Guardiasigilli ha escluso "assolutamente" una simile ipotesi per quanto riguarda la sua azione al ministero della Giustizia. Conso ha affermato di aver agito all'epoca sempre di propria iniziativa e senza condizionamenti di altri. "A me non risulta niente di tutto ciò. Però non posso escludere - ha affermato Conso nel corso della sua deposizione - che una sera a cena tra due funzionari si sia discusso su cosa fare per gettare un ponte. Ma io a questo non ci credo".
Sia l'avvocato di parte civile Roberto D'Ippolito, che l'avvocato Luca Cianferoni, difensore di Tagliavia, hanno chiesto più volte a Conso se in qualche maniera abbiano pesato sulla sua attività ministeriale gli attentati mafiosi. Conso ha escluso una tale eventualità e ha osservato: "Qualcuno può anche averlo pensato, io no".
Conso, interrogato dalle parti, ha ripercorso tutta la vicenda dell'applicazione dell'art. 41 bis ai detenuti mafiosi dal 12 febbraio 1993, giorno del suo giuramento al Quirinale come ministro della Giustizia nel governo Amato, fino al 9 maggio 1994, quando decadde il governo Ciampi, dove ricoprì lo stesso incarico di Guardasigilli.
"Anche di fronte al numero notevole di detenuti suscettibili di essere sottoposti al 41 bis, le prassi erano tante; bisognava andare con cautela, non sciabolare decreti, che andavano motivati" e "mi son trovato a gestire i rinnovi dei decreti sul 41 bis in scadenza su delibere prese da altri". "Mi sono accorto - ha aggiunto sullo stesso argomento Conso - che dopo aver ritirato le deleghe al Dipartimento di amministrazione penitenziaria e mi sono messo ad esercitare in proprio il potere di emettere i decreti sul 41 bis, mi sono pentito, me ne sono un po' rammaricato. Perché è più pratico che se ne occupi il Dap. Invece così si rischia di creare tensione tra il personale, come tra gli agenti di custodia; era un momento di grande emergenza". Conso succedette al dicastero della Giustizia a Claudio Martelli e ha precisato: "Il mio predecessore delegava il capo del dipartimento di amministrazione penitenziaria di infliggere il 41 bis". Quando nell'autunno del '93, maturò la sostituzione di Nicolò Amato al vertice del Dap, dovendo avere un incarico a Strasburgo, Conso ritirò le deleghe sul 41 bis.
Alla domanda del presidente della Corte d'Assise, Nicola Pisano, se fosse mai fosse stato avvicinato da un qualche referente di Cosa nostra che minacciava nuove stragi per ammorbidire il regime carcerario del 41 bis, Conso ha replicato: "Niente di niente, nessuno mi ha detto mai niente né sono stato avvicinato".

Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, al termine dell'udienza nell'aula bunker di Firenze di Giovanni Conso, ha detto: "Il professore Conso ha impartito una interessante lectio magistralis a tutti noi questa mattina nel processo in corso a Firenze per le stragi del 1993, così come abbiamo appreso quanto burocraticamente parlando fosse all'epoca difficile gestire il 41 bis visto il numero eccessivo dei detenuti applicati a quel regime speciale. Al di la di tutto ciò, nella nostra testa rimbomba una risposta del prof. Conso: 'ricordi precisi non ne ho' rispetto ai passaggi o alle reiterazioni del 41 bis nell'anno '93, cosi' come del resto non doveva ricordare bene davanti al procuratore Chelazzi il 24 settembre 2002. Mentre in Commissione Antimafia e' stato precisissimo nel dire: ho deciso in 'assoluta solitudine' per quei decreti da rinnovare o meno sul 41 bis. Quindi sulla reiterazione per ben tre volte dei 41 bis da maggio a novembre del 1993, il nocciolo dell'udienza di questa mattina, quello che si è capito è che l'incapacità dello Stato a proteggere i nostri figli davanti alla mafia è stato totale".

Oggi, sempre nell'ambito del processo per le stragi mafiose del 1993, è stato sentito l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino, in carica dal giugno 1992 all'aprile 1994. "Durante il mio mandato l'offensiva contro la mafia è stata crescente" ha rivendicato Mancino. "Sapevo che la mafia soffriva il 41 bis ma era giusto secondo la mia valutazione, ed anche quella dell'allora ministro della Giustizia Martelli, proseguire su questa linea. Noi abbiamo mantenuto una posizione molto rigida sui detenuti mafiosi - ha aggiunto - sapendo bene che solo così lo Stato avrebbe potuto vincere l'offensiva contro la criminalità organizzata". Riguardo alle presunte pressioni per revocare il regime del carcere duro previsto dal 41 bis, Mancino ha detto: "Io escludo di avere avuto sollecitazioni in tal senso. Potremmo forse ridurre l'offensiva della mafia riducendo il carcere duro? No".
Mancino è stato poi anche interrogato sui contatti con l'allora direttore del Dap, Nicolò Amato, dichiarando di non avere mai avuto confronti con lui sul tema del carcere duro. Mancino ha anche smentito di aver ricevuto lettere o documenti da Amato nel marzo del 1993 in cui il direttore del Dap chiedeva la fine del regime 41 bis per 1.100 detenuti mafiosi: "Io dal Dap non ho mai avuto documenti". E ha anche aggiunto: "Delle diverse posizioni e opinioni sul carcere duro io non sono mai stato interessato né nessuno me ne ha parlato. Il carcere duro era necessario se volevamo raggiungere successi nella lotta alla mafia".

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ing, Ansa]

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17 febbraio 2011
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