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Le stragi e le trattative

I pentiti Nino Giuffrè e Giovanni Brusca parlano del negoziato tra Stato e mafia

07 giugno 2012

Dopo la strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, sarebbe stata avviata una trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra. Un'altra conferma all'ipotesi investigativa dei magistrati di Palermo e Caltanissetta arriva dall'ex boss mafioso di Caccamo, oggi pentito, Antonino Giuffrè, ex braccio destro di Bernardo Provenzano.
Giuffrè è stato sentito nei giorni scorsi nell'aula bunker del carcere romano di Rebibbia nell'incidente probatorio, davanti al gip di Caltanissetta Alessandra Giunta, nell'ambito delle nuove indagini sulla strage di via D'Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. L'esame di Giuffrè è stato chiesto anche dal legale del capomafia Salvatore Madonia e del boss Vittorio Tutino, due degli ultimi quattro mafiosi arrestati a marzo per l'eccidio di via D'Amelio, tirati in ballo nella nuova inchiesta aperta grazie alle dichiarazioni del collaboratore Gaspare Spatuzza.
All'incidente probatorio hanno partecipato per la Procura i pm Nicolò Marino, Stefano Luciani, Gabriele Paci e l'aggiunto Nico Gozzo.

"Oggi in memoria di Falcone e Borsellino si fanno grandi celebrazioni, ma quando erano vivi anche all'interno della magistratura non avevano molti amici e anche questo ha reso forte Totò Riina". E’ questa l'opinione di Giuffrè, secondo cui l'isolamento che circondava i due magistrati uccisi dalla mafia rafforzò ulteriormente Cosa Nostra.
Giuffrè ha ricordato una delle riunioni deliberative della strage, organizzata a dicembre del '91 a cui - ha detto - partecipò Madonia. Nella nuova inchiesta sono coinvolti, oltre a Madonia e Tutino, Salvatore Vitale e Calogero Pulci, pentito poi espulso dal programma di protezione.
Giuffrè ha confermato l'esistenza della trattativa Stato-mafia: "Sapevo che Vito Ciancimino era in missione". Sollecitato dalla procura di Caltanissetta, l'ex boss ha riferito un particolare appreso dal boss Bernardo Provenzano. Giuffrè usa l'espressione "missione" per indicare una sorta di incarico avuto dall'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino di "sondare" la disponibilità a un'intesa tra Stato e mafia.
Un tassello importante per i pm nisseni che hanno accertato che Borsellino sapeva dei primi contatti intrapresi da alcuni carabinieri del Ros con l'ex sindaco finalizzati a far cessare la strategia stragista in cambio di concessioni ai capimafia.
Al termine dell'incidente probatorio, il legale del boss Salvo Madonia ha chiesto al gip il confronto tra lo stesso Madonia e il pentito Nino Giuffrè oltre che con il pentito Giovanni Brusca.

Quest’ultimo è stato ascoltato ieri per più di sette dal gip di Caltanissetta e, come un fiume in piena, ha parlato non di una ma di più trattative o tentativi di trattative tra Stato e mafia con diversi oggetti e protagonisti.
Il "boia" di Capaci ha riferito che la più significativa delle trattative di cui è a conoscenza è quella portata avanti dal boss Totò Riina. "Solo dopo anni - ha detto il pentito - ho scoperto dai giornali che i suoi interlocutori erano i carabinieri".
Il pentito, che per primo parlò del "papello" con le richieste alle istituzioni a cui il capomafia corleonese avrebbe subordinato la fine della strategia stragista, ha poi raccontato di avere saputo dal padrino che tra i soggetti che nel tempo avevano mostrato interesse a dialogare con Cosa nostra c’erano, oltre all’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e il leader della Lega Umberto Bossi.

Nel lungo interrogatorio, Brusca ha poi parlato di un altro tentativo di "dialogo" con lo Stato avviato nei mesi di marzo-aprile del 1992, prima quindi della strage di Capaci.
Per spingere lo Stato a scendere a patti con Cosa nostra, insieme all’ex bandito della Mucciatella Paolo Bellini e al mafioso Nino Gioè, poi morto suicida in carcere, Brusca aveva già parlato dell’idea di colpire i monumenti storici. Bellini, piccolo criminale, alias Roberto Da Silva "esperto di opere d'arte" avrebbe avuto spesso rapporti coi boss, fatto recuperare quadri rubati ai carabinieri, e commissionato furti alla mafia. Gioè gli avrebbe chiesto cosa sarebbe successo se "un giorno la torre di Pisa non fosse più esistita" e lui avrebbe risposto che "la città sarebbe stata messa in ginocchio".

[Informazioni tratte da ANSA, Lasiciliaweb.it, Il Fatto Quotidiano, LiveSicilia.it]

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07 giugno 2012
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