Le ultime parole di Paolo Borsellino alla Città di Palermo. Era il 25 giugno del 1992
Un documento poco diffuso, dove il giudice Paolo Borsellino parla dell'operato di Giovanni Falcone
Pubblichiamo di seguito l'ultimo intervento pubblico di Paolo Borsellino del 25 giugno 1992
Questo documento, poco diffuso, è la sbobinatura dell'ultimo incontro pubblico di Paolo Borsellino con la città di Palermo, organizzato dal Movimento della Rete e dalla rivista Micromega e dove il giudice parla della morte del suo amico e collega Giovanni Falcone.
Dopo poco più di tre settimane, Paolo Borsellino fu trucidato. Esiste solamente il sonoro. Il testo integrale non è mai stato pubblicato, se non in questo opuscoletto in distribuzione solo il 25 giugno 1993 alla biblioteca comunale di Palermo.
"Avendo raccolto io, più o meno come altri amici di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico delle mie valutazioni su di esse, ne voglio parlare in sede di autorità giudiziaria, che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possano servire a mettere luce all'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone. Per evitare che si possano innestare speculazioni fuorvianti anche sugli appunti che sono stati pubblicati sul "Sole 24 Ore" dalla giornalista Liana Milella, io li avevo letti in vita di Giovanni Falcone, e sono proprio appunti di Giovanni Falcone, lo dico perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho sentito anche le dichiarazioni alla televisione di Antonino Caponnetto, che fu giudice istruttore a Palermo all'epoca del Pool Antimafia, specie laddove Caponnetto ribadiva la tesi, sostenuta da più parti, che Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988 quando la maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli alla guida dell'Ufficio Istruzione dopo il mio trasferimento da Palermo e che il vero motivo che indusse Giovanni Falcone ad accettare l'offerta di Martelli di andare a Roma fu il contrasto che si era creato tra Giovanni Falcone e i dirigenti della Procura della Repubblica di Palermo. Io condivido queste affermazioni di Caponnetto, anche se con questo non intendo dire che il criminoso evento del 23 maggio sia il naturale epilogo di questo processo di morte.
Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi tutti ci rendiamo conto qual'è stata la statura di quest'uomo. Ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la Magistratura - che forse ha più colpe di ogni altro - cominciò proprio a farlo morire il primo gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando, cioè con quell'articolo di Leonardo Sciascia sul "Corriere della Sera" che bollava me come un professionista dell'Antimafia e l'amico Leoluca Orlando come professionista dell'Antimafia nella politica. Ma nel gennaio 1988 quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio Superiore della Magistratura di allora, con motivazioni risibili, gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo, e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest'uomo (Caponnetto) rischiava, perchè anziano, perché conduceva già da anni una vita sicuramente non sopportabile da nessuno, di morire a Palermo; temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva, e perciò tutti noi, Falcone in testa, pur coscienti del pericolo che si correva, lo convincemmo, molto riottoso com'era, ad allontanarsi da Palermo.
Si aprì la corsa alla successione all'Ufficio Istruzione del Tribunale. Falcone concorse, ma qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, ed il giorno del mio compleanno, il Consiglio Superiore della Magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che aveva e la sua volontà di continuare comunque il lavoro che aveva inventato e al quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli, nella convinzione che, nonostante lo schiaffo ricevuto, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuava a crederlo, nonostante io, che mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato perché ero stato trasferito a Marsala e guardavo quindi dall'esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel più assoluto silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui nel corso della presentazione di un libro ad Agrigento denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito ripreso e commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che l'aria si andava facendo sempre più pesante. Luca Orlando ha ricordato che cosa avvenne subito dopo: per avere denunciato questa verità, io rischiai conseguenze professionali gravissime. Ma quel che è peggio, questa iniziativa che all'inizio sembrava solo nei miei confronti, immediatamente rivelò il suo vero obiettivo: doveva essere eliminato Giovanni Falcone. E forse questo io l'avevo messo nel conto, perché ero convinto che l'avrebbero eliminato comunque. Almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, il Pool Antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in privato.
Allora l'opinione pubblica fece il miracolo: ricordo quel caldissimo agosto del 1988, quando l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Csm a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto. Tant'è che il 15 settembre, seppur zoppicante, il Pool Antimafia fu rimesso in piedi. Ma si rafforzarono, dall'altra parte, la protervia del consigliere istruttore, e gli interventi nefasti della Cassazione, cominciati allora e continuati fino adesso, perché malgrado tutto quello che è successo ora in Sicilia, la Corte di Cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste, continuando così a far morire Giovanni Falcone, un uomo delle istituzioni con un profondissimo senso dello Stato, che, nonostante tutto, continuò incessantemente a lavorare. Falcone approdò alla Procura della Repubblica di Palermo, dove ad un certo punto ritenne - le motivazioni le riservo a quella parte di espressioni delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata altrove - di non potere lì continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al Ministero di Grazia e Giustizia - e questo lo posso dire sì, prima di essere ascoltato dal giudice - non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché ad un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di potere continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e, nelle sue convinzioni, decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa.
Apprendendo dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po' più raramente, perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo) Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori l'ordinamento interno del Ministero di Grazia e Giustizia e scorrendo i singoli articoli mi cominciò sin da allora, sin dal primo giorno ad illustrare quel che poteva fare e riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
Certo, anch'io, talvolta, ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa dalle strutture, anch'esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario: si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo con la mente a Palermo, e sin dal primo momento mi illustrò quello che poteva e voleva fare, quello che riteneva di potere fare per Palermo ed in fin dei conti se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al Ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio, anche se contestato, anche se criticato, riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, Falcone pensava potessero funzionare con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e soprattutto con riferimento al lavoro che aveva fatto a Palermo.
Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, era, nei suoi intenti, la Superprocura sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera, sostanzialmente critica nei riguardi di questa struttura, predisposta dal collega Marcello Maddalena di Torino; ma mai, neanche per un istante ho dubitato che questo strumento, sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato, servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per consentirgli soprattutto di ritornare a fare il magistrato. L'organizzazione mafiosa, non voglio esprimere opinioni che si sia trattato di mafia o soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque, ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, proprio nel momento in cui a mio parere si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del CSM, fosse ormai ad un passo, secondo le notizie che io conoscevo e che gli avevo comunicato e che egli già sapeva (e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Palazzo) ad un passo dal diventare direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse ripensandoci, quando Caponnetto dice che Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988, ha proprio ragione, anche in riferimento all'esito della lotta che Giovanni Falcone fece per continuare a lavorare. Possono essere avanzate tutte le critiche che si vogliono, se in buona fede, ma riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere continuare il suo lavoro. E per questo, crediamo, Giovanni Falcone è morto".