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Medici, boss, cimici e talpe...

8 anni all'ex assessore di Palermo dell'Udc, Domenico Miceli, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa

07 dicembre 2006

Un'inchiesta lunga e complicata quella delle ''Talpe alla Dda di Palermo''. Complicata perché le persone coinvolte non avrebbero dovuto far parte della ''malavita'', anzi, fra politici e professionisti grandemente  conosciuti e uomini delle forze dell'ordine, il disagio e il senso di estraniazione dev'essere stato tanto per chi ha iniziato, all'incirca quattro anni fa, a cercare di capirci qualcosa e trovare la verità .
Un inchiesta lunga e complicata che si è poi suddivisa in altre indagini, e nella quale l'opinione pubblica ha trovato le conferme a quello che tutti, bene o male, in Sicilia sanno o immaginavano, ossia: la mafia che si fa tutt'uno con la politica e il mondo degli affari; la mafia che non spara più più perché sostanzialmente non ne ha più bisogno; la mafia che non è più nel tessuto sociale, ma sembra essere diventato il tessuto sociale stesso.

E dopo tante accuse, intercettazioni, collaborazioni con la giustizia e innocenze ancora presunte fino a prova contraria, in questa storia fatta di ''cimici'', ''talpe'', ''marescialli'', ''politici'' e ''dottori'' importanti, la Giustizia comincia ad emettere le sue condanne.
I giudici della terza sezione penale del tribunale di Palermo hanno condannato ad otto anni di carcere l'ex assessore comunale dell'Udc Domenico Miceli, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Insieme a Domenico Miceli era imputato anche Francesco Buscemi, che è stato condannato a sette anni di reclusione, anch'egli per concorso esterno in associazione mafiosa. A entrambi è stata applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata, della durata minima di un anno ciascuno; i giudici, inoltre, li hanno dichiarati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici, in stato d'interdizione legale durante l'espiazione della pena e incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione, per la durata di un anno.
I pm Nino Di Matteo e Gaetano Paci avevano chiesto per Miceli la condanna a 9 anni e sei mesi. Sette anni, invece, all'ex segretario di Vito Ciancimino, Francesco Buscemi. 

L'ex assessore comunale di Palermo alla Salute, personaggio di punta per il ''processo alle Talpe'', era presente in aula,insieme ai propri familiari, e, a conclusione dell'udienza, non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione.

Quindi, Domenico Miceli è un altro di quei dirigenti siciliani dell'Udc che in questi anni avevano stabilito un rapporto ferreo con mafiosi ottenendo, in cambio di favori, pieno sostegno elettorale. A dirlo la terza sentenza dei giudici della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presieduta da Raimondo Loforti, che dopo un giorno di camera di consiglio ha pronunciato la sentenza per quello che i pm avevano definito ''l'uomo dei boss in politica'', perché venne candidato alle regionali nel giugno 2001 ''su iniziativa del capofamiglia di Brancaccio'', il dott. Giuseppe Guttadauro.
Il processo a Miceli si è aperto il 6 luglio 2004, dopo essere stato arrestato nel giugno 2003 in seguito alle intercettazioni ambientali effettuate a casa di Guttadauro. Già nel dicembre del 2002 Miceli si autosospese da assessore alla Salute del Comune di Palermo dopo che sul 'Giornale di Sicilia' furono pubblicate le prime intercettazioni effettuate a casa del boss, e nelle quali Miceli parlava a ruota libera col capomafia, di favori e politica. Due mesi dopo che le notizie divennero di dominio pubblico l'uomo politico dell'Udc decise di dimettersi da assessore alla Salute della giunta guidata dal forzista Diego Cammarata.

Secondo la procura dunque, Miceli avrebbe fatto da tramite tra la mafia e il mondo della politica.
In particolare i pm Paci e Di Matteo, che hanno coordinato l'inchiesta svolta dai carabinieri, contestano al politicoDomenico Miceli di avere sostenuto gli interessi del capomafia di Brancaccio grazie ai suoi rapporti con esponenti politici regionali. L'ex assessore comunale viene indicato dall'accusa come il canale per veicolare fino ai vertici della Regione le richieste di Guttadauro. I pm hanno sostenuto che Domenico Miceli ''ha assunto il ruolo di tramite tra Guttadauro e il presidente della Regione, Cuffaro, prospettando a Cuffaro le richieste di Guttadauro e fornendo al boss le risposte del governatore''.
Il dibattimento, nel corso del quale sono stati sentiti anche alcuni collaboratori di giustizia, ha analizzato in particolare le modalità che portarono alla candidatura di Miceli alle regionali del 2001. Una decisione, secondo l'accusa, legata ''all'intervento di Guttadauro e accettata da Cuffaro, poi sostenuta e sponsorizzata dai boss che in quelle stesse consultazioni si impegnarono anche per altri''. Per i pm questa vicenda ''è l'asse portante attorno a cui ruota tutta la complessa trama nei rapporti tra Miceli e Cosa nostra. Il politico ottenne 6.200 preferenze, fu il primo dei non eletti quando il suo obiettivo massimo sarebbe stato di cinquemila preferenze''.
Ma, nonostante tutto l'ex assessore non fu però eletto: è questo infatti uno dei cavalli di battaglia della difesa, rappresentata dagli avvocati Ninni Reina e Carlo Fabbri. I legali sostengono che la mancata elezione è dovuta a un sostanziale bluff di Guttadauro che, pur promettendo, non avrebbe fatto nulla di concreto in favore del suo pupillo. Mancherebbe così lo scambio, il vantaggio reciproco, fondamento del concorso esterno.

Ma nel salotto di Guttadauro, non si discuteva certo della sola candidatura di Miceli alla Regione. Lì, infatti, si sarebbero tentate ''illecite riorganizzazioni urbanistiche'' per dare vita a maxiaffari; tentativi di condizionamento delle nomine dei primari nei principali ospedali dell'Isola; assunzione di due medici amici del boss. Nulla di tutto quello che viene contestato all'imputato fu però realizzato, afferma la difesa. Ma l'accusa ribatte che Miceli si spese e si impegnò affinché i voleri della mafia fossero accontentati.
Molto significativa e importante, sempre secondo i pm, anche la vicenda della fuga di notizie che consentì al boss Guttadauro di scoprire la microspia piazzata nel salotto di casa sua. ''Il suo ruolo (quello di Miceli, ndr) fu determinante, informò Salvo Aragona (un altro influente medico) che a sua volta rivelò la notizia a Guttadauro'', hanno sostenuto i pm Paci e Di Matteo, che hanno pedissequamente ricostruito la 'catena' della fuga di notizie: a rivelare l'esistenza delle microspie sarebbe stato il carabiniere Giorgio Riolo, l'uomo che le aveva piazzate e che oggi è accusato di essere 'una talpa'; Riolo ha confessato di aver parlato con il collega maresciallo Antonio Borzacchelli e quest'ultimo, che si era dato alla politica nel Cdu-Udc, ne avrebbe parlato con Totò Cuffaro (Borzacchelli insieme a Cuffaro e all'imprenditore bagherese, Michele Aiello, fanno parte anche dell'altra tranche del processo sulle ''Talpe alla Dda''). Dal presidente la notizia sarebbe arrivata a Miceli, da questi ad Aragona e quindi a Guttadauro.

Ma, alla fine per l'ex assessore comunale niente. Come dire: Mimmo Miceli, che fece tutto per il boss, è rimasto alla fine ''curnutu e bastuniatu'' (cornuto e bastonato).
Ovviamente, l'imputato ha sempre respinto le accuse. La difesa ha portato in aula diversi testi per dimostrare l'estraneità ai fatti contestati e alla fine, in una memoria di 650 pagine, depositata ai giudici, ha concluso che ''non c'è in ogni caso la effettività del contributo e il rafforzamento della struttura associativa di Cosa nostra, nel comportamento di Miceli''.

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07 dicembre 2006
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