MORTE A CREDITO
Né Lui né i suoi familiari: per Piergiorgio Welby altri hanno deciso, di fatto, ''l'agonia di Stato''
''Io amo la vita, presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso... Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita... è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... è lì, squadernato davanti ai medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c'è pietà''.
Sono passati ottantadue giorni da quando Piergiorgio Welby ha scritto la sua lettera appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ottantadue giorni di atroce sofferenza, di dibattiti, di assurdità, di crudeltà.
Piergiorgio Welby sta morendo. Le sue condizioni sono peggiorate e la sua sofferenza è aumentata diventando insopportabile, così come la sofferenza di chi accanto a Welby è stato e starà fino alla fine.
''Le condizioni di salute del signor Welby sono peggiorate rispetto all'ultimo controllo. Il paziente in questo momento ha problemi a riposare durante la notte per lo sfiato emesso dal passaggio dell'aria attraverso la stomia''. È quanto si legge sul certificato di uno dei medici di Welby che è stato presentato agli atti dell'udienza tenutasi ieri pomeriggio.
Sì, atti dell'udienza, perché la decisione di far cessare la sofferenza di Welby adesso è in mano ai giudici. Dovrà stabilire la legge, con una sua sentenza, se un uomo deve o meno morire fra atroci dolori...
Piergiorgio Welby nei giorni scorsi ha presentato un ricorso nel quale ha chiesto l'interruzione dell'accanimento terapeutico. I pm della Procura di Roma hanno dato parere positivo alla richiesta di Welby, giudicato parzialmente legittimo il ricorso presentato: ''Se vuole interrompere la terapia può farlo ma in caso di sofferenza sarà il medico a decidere se ripristinarla''.
La Procura ha così difeso il diritto di autodeterminazione del paziente ma al contempo ha rispettato l'autonomia del medico, libero di ripristinare la terapia una volta che la spina sarà staccata.
''Sotto il profilo dell'esistenza del diritto ad interrompere il trattamento terapeutico non voluto - ha sostenuto la Procura - il ricorso è ammissibile e va accolto. Per quanto riguarda invece la possibilità dei medici di non ripristinare la terapia, il ricorso è inammissibile, perché trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico''.
Discrezionalità già esercitata da uno uno dei due medici che seguono Welby, che opponendosi al primo parere positivo della Procura, ha dichiarato: ''Non staccate la spina, perché se lo fate sarò costretto ad intervenire''. Infatti, nell'udienza di ieri il legale del sanitario, secondo quanto si è appreso, pur dichiarandosi d'accordo sul principio che l'intervento medico è legittimato dal consenso del paziente, ha sostenuto che, nell'eventualità di una situazione di affanno dovuta al distacco del ventilatore polmonare, si troverebbe nella situazione di dover ripristinare la terapia e, conseguentemente, di non poter dar seguito al desiderio del paziente.
Di fronte a questo ennesimo freno, Angela Salvio, il giudice del tribunale civile di Roma si è quindi riservata di decidere sul ricorso, e la sua decisione si saprà entro una settimana.
Insomma, una strada senza uscita creata da un'astrusa burocrazia legislativa, accolta favorevolmente da una parte della politica - quella più ottusa e ipocrita -, che hanno di fatto deciso di prolungare l'atroce agonia di Welby.
Incontro a Welby però è andato il medico chirurgo Roberto Santi, che in una lettera, recapitata a Welby dall'Associazione Luca Coscioni, ha scritto: ''Mi offro di darle quella assistenza che lei con tenacia chiede, in grado di interrompere la sua sofferenza''. ''Allargare il suo problema all'eutanasia - ha scritto il medico - significa disperdere il suo personale bisogno ed il rispetto di un suo sacrosanto diritto in un oceano di disquisizioni etiche rese praticamente inaffrontabile dalla forte presenza ed influenza delle gerarchie ecclesiastiche nel nostro Paese e sulle forze politiche. Il suo caso è un altro. Si tratta semplicemente di interrompere un atto terapeutico che era già accanimento nel momento stesso in cui fu deciso''. Concludendo la lettera Santi ha infine scritto di offrirsi per interrompere la sofferenza di Welby, anche perché: ''È una cosa che noi medici abbiamo fatto e facciamo ogni giorno nel chiuso delle camere di ospedale e nelle case private dei nostri pazienti e nel chiuso del silenzio e del tormento dei nostri pensieri e di quelli dei parenti. Volontariamente e scientemente. Secondo scienza e coscienza. A volte lo facciamo per errore. Nel tempo che sto dedicando a questa lettera è successo 3 o 4 volte, secondo le statistiche''.
Intanto Welby muore nella maniera in cui aveva esplicitamente richiesto di non voler morire. Onestamente, Welby aveva voluto far conoscere la propria vicenda all'opinione pubblica affinché si potesse riflettere sul fatto che, purtroppo, le somme decisioni, quelle più importanti, non è vero che stanno nella volontà di Dio, ma nelle mani dell'ingerenza politica, ecclesiastica e giudiziaria.
Welby sta morendo soffocato, non solo per colpa della sopraggiunta inadeguatezza dei macchinari che lo tengono crudelmente in vita, ma per colpa di quella che ci sembra una morale immorale, un'etica ingiusta, una logica insensata.