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Niente dura per sempre. Nemmeno il pizzo

La rivolta dei commerciati di Palermo: andranno all'Ucciardone per riconoscere i propri estortori

05 luglio 2008

Niente può durare per sempre... Si dice che i sogni finiscano all'alba. Evidentemente, nei confronti della realtà hanno una resistenza inferiore rispetto a quella degli incubi, questi, infatti, riescono a resistere molto più a lungo... Le cose brutte, si sa, sembrano non finire mai. Come quando si sente un dolore, sia nella carne che nell'anima. Pure se quel dolore effettivamente dura un attimo, beh, quell'attimo sembra un'eternità.
Ma l'eternità non è fatta per gli uomini, e tutto per gli uomini prima o poi finisce. Finiscono anche le cose brutte, fortunatamente. Sì, qualcuno potrà fare notare che al peggio non c'è mai fine, ma qualcun'altro dirà che chi dice così è perché vede il bicchiere mezzo vuoto. Ma questo, in realtà, non ha poi tanta importanza. L'importante è rendersi conto che nulla è ineluttabilmente senza fine, che non tutto nella vita bisogna essere preso come condanna o dono calato dall'alto. I doni bisogna meritarseli, mentre alcune condanne non si devo per forza espiare. Ad esempio, la condanna di pagare il pizzo non è una pena che si deve subire. A questa ''condanna'' ci si puo e ci si deve ribellare. A Palermo, Città da troppo tempo succube di tale condanna, le persone sembra che lo stiano capendo e senbra che le cose stiano cominciando a cambiare...

Palermo, rivolta dei commercianti
IN CARCERE PER RICONOSCERE I MAFIOSI
di Attilio Bolzoni (Repubblica.it, 5 luglio 2008)

Carcere dell'Ucciardorne, Palermo. Dietro un vetro schermato sfileranno per la prima volta, uno dopo l'altro e tutti decisi ad accusare i loro carnefici: "E' lui, è lui che veniva per la messa a posto". Un riconoscimento "all'americana", in Sicilia non era mai accaduto prima. Saranno in diciotto. Ci sarà pure P.V., che il pizzo l'ha pagato ininterrottamente per ventidue anni. Dall'inizio del 1986. Mese dopo mese. E sempre allo stesso mafioso.

Oramai non ce la fanno più a stare zitti. Ogni giorno c'è qualcuno che parla. Denunciano in massa.
Piccoli e grandi commercianti, proprietari di bar e negozi di abbigliamento, pizzaioli, titolari di autosaloni, tabaccai, gelatai, salumieri. L'altro giorno si è presentato in Questura un venditore ambulante di olive. Versava appena 5 euro la settimana agli emissari del boss del Borgo Vecchio. Nonostante l'esigua somma richiesta ogni giovedì "per i festeggiamenti della patrona Sant'Anna", l'olivaro ha deciso comunque di ribellarsi. Ha fatto nomi e cognomi, ne ha incastrati cinque.
E' la "rivoluzione" di Palermo contro il racket. E' il muro di omertà che crolla.
"La città sta cambiando, nel giro di pochi mesi sono decine e decine i commercianti che hanno scelto di non pagare più", dice il questore Giuseppe Caruso.

Alla sezione "criminalità organizzata" della Squadra mobile c'è un reparto che lavora soltanto su quelle confessioni. "Dal 1996 al 2006 avevamo ricevuto quatto denunce in tutto, dalla fine del 2007 sembra che Palermo abbia cominciato a liberarsi dal giogo mafioso", racconta Maurizio De Lucia, il sostituto procuratore più specializzato nelle investigazioni sul pizzo.
C'è meno "voglia" di mafia nella capitale della Sicilia. E c'è meno paura.
Più che l'arresto di grandi padrini come Bernardo Provenzano o di capimandamento come Antonino Rotolo, la rivolta contro l'Anonima Estorsioni è esplosa dopo la cattura di decine e decine di piccoli "esattori". Quelli che di notte davano fuoco alle botteghe. Quelli che di giorno puntavano la pistola alle tempie delle loro vittime più maldisposte a subire. Su 57 commercianti trovati nei "pizzini" del boss Salvatore Lo Piccolo, già trenta hanno confessato di avere pagato. La maggioranza. Fino a un anno fa tutti tacevano terrorizzati. Fino a un anno fa negavano l'evidenza, diventavano complici, coprivano i picciotti sguinzagliati nelle borgate per incassare.
Diciotto di quei trenta dopopomani - lunedì 7 luglio - sono stati convocati nell'aula bunker dell'Ucciardone per quella che nel codice di procedura penale si chiama "ricognizione di persona", il riconoscimento di dodici mafiosi che andavano a riscuotere nelle borgate a ovest di Palermo. Una lastra che da una parte è vetro e dall'altra specchio, tre uomini "il più possibile somiglianti" tutti vicini e con un numero in mano, i diciotto commercianti chiamati a identificarli e accusarli.

Fra loro ci sarà P. V., quello che dal 1986 ha pagato sempre lo stesso picciotto di Tommaso Natale. E poi ci sarà N. M., il falegname che versa il pizzo dal 1988 e che l'ha "ereditato" da suo padre insieme alla bottega a Cardillo. E poi ci sarà anche G. F., un piccolo imprenditore edile che due mesi fa una sera è tornato a casa e si è sentito chiedere dalla figlia: "Papà, ma tu paghi il pizzo?". La mattina dopo G. F. era anche lui in Questura a denunciare.
"Siamo all'inizio di un percorso difficilissimo ma bisogna riconoscere che la rottura ormai c'è stata pure a Palermo", risponde Tano Grasso, il primo siciliano che non si è piegato ai boss di Capo d'Orlando e che per un decennio è stato il leader della Federazione antiracket. Spiega: "I commercianti palemitani si sono guardati in uno specchio e finalmente hanno capito che il loro silenzio era un disvalore". L'ultimo che ha fatto il grande passo è un nome famoso: il titolare di un'attività commerciale importante, non c'è un solo palermitano che non la conosca. Dopo vent'anni di angherie ha detto basta anche lui.

La svolta "palermitana" è clamorosa. Qui hanno sempre pagato tutti, a "mesate" o in due rate - una a Natale e l'altra a Pasqua - con o senza sconto (la mediazione di un amico degli amici), in contanti o assumendo operai e impiegati imposti da Cosa Nostra.
Una sterzata che ha una data precisa: novembre 2007. Il 10, al teatro Biondo davanti alla Vucciria, gli industriali siciliani si sono riuniti e il loro presidente Ivan Lo Bello ha annunciato: "Chi pagherà il pizzo d'ora in poi sarà espulso dalla nostra associazione".
Appena cinque giorni prima i poliziotti avevano catturato il boss Salvatore Lo Piccolo. Poi i quotidiani hanno pubblicato la lista degli imprenditori registrati nel "libro mastro". "E' stato in quel momento che abbiamo avuto l'idea di prendere contatto con tutte le vittime", ricorda l'avvocato Ugo Forello, il legale di Addiopizzo che con il suo collega Salvatore Caradonna sostiene tutti i commercianti che vogliono denunciare.
Hanno spedito una raccomandata con ricevuta di ritorno, indirizzata a ogni nome presente nel "libro mastro". E una lettera: "Caro commerciante, caro imprenditore, abbiamo deciso di scriverle per manifestare la nostra vicinanza in questo momento di difficoltà per lei, la sua famiglia, la sua azienda. Fra qualche settimana sarà interrogato dagli inquirenti e le saranno contestati alcuni fatti. lei potrà ammettere e collaborare o negare. Prima che lei compia tale scelta le chiediamo di ascoltarci...".
La lettera di Addiopizzo invitava tutti a parlare. Garantiva riservatezza e assistenza legale gratuita. Dopo quindici giorni le prime risposte. Ai cellulari. Via mail. Per lettera.
"Nemmeno noi ce ne aspettavamo così tanti di commercianti palermitani che avevano voglia di finirla con il pizzo", dice l'avvocato Forello. Il "filtro" delle associazioni antiracket è stato fondamentale. Sono loro che seguono tecnicamente e psicologicamente le vittime, che spiegano quale è la strada più giusta e sicura da seguire in caso di denuncia, che li accompagnano in un commissariato di polizia o in una caserma dei carabinieri. Così è cominciata la rivolta contro il racket.
Oggi a Palermo sono otto i commercianti che girano per le vie della città sotto scorta.

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05 luglio 2008
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