Non ammazzate la marineria siciliana
I pescatori siciliani con... l'acqua alla gola, tra caro-gasolio e costi iniqui
Le due più importanti marinerie della Sicilia, Mazara del Vallo e Sciacca, hanno aderito allo sciopero europeo contro il caro gasolio. La protesta che ha già toccato Francia, Inghilterra e Spagna, è giunta fino a Mazzara del Vallo, dove 75 cooperative di pescatori hanno aderito alla protesta, e 400 pescherecci sono rimasti fermi.
Giuseppe Gullo, presidente di Legapesca Sicilia, ha così motivato l'agitazione: "Abbiamo chiesto un incontro con l'assessore ma molto dipenderà anche dalle notizie che ci arriveranno a livello nazionale e comunitario".
A Sciacca, invece, la scorsa mattina 200 pescatori hanno bloccato la circolazione stradale sulla statale 115. Il direttore delle cooperative della zona ha ribadito che il prezzo del "gasolio è passato in poco tempo da 42 a 80 centesimi al litro, e i nostri guadagni sono scesi del 20%. Un pescatore in media non riesce a portare a casa più di 600 euro al mese. La situazione è insostenibile"...
600 euro per un mese in mare: il declino di Mazara e della flotta
di Alessandra Ziniti (Repubblica.it, 4 giugno 2008)
MAZARA DEL VALLO - Qui, nella più grande marineria del Mediterraneo, lo sciopero non si può fare. "Purtroppo ormai siamo costretti a fare battute di pesca che durano in media trenta giorni - spiega un armatore - solo per fare uscire una barca ci dobbiamo mettere in mano 50 mila euro di spese. E da un giorno all'altro non si può proclamare uno sciopero e rientrare, se no si va in fallimento e le banche ormai ci hanno chiuso i rubinetti. Però alla protesta aderiamo tutti perché Mazara ormai è un porto che sta morendo".
Di quella che era la vitalità del più grande porto peschereccio d'Italia con quasi 30 mila tonnellate di pescato all'anno, resta ben poco. I pescatori che sono in banchina, riparano reti e cercano di fare manutenzione alle loro barche, hanno facce scure. Giovani immigrati provano senza fortuna a chiedere un imbarco, ma di lavoro non ce n'è più e chi lo offre spesso non può dare neanche il cosiddetto minimo garantito: 5-600 euro per trenta giorni in mare, in condizioni di poca sicurezza e di enorme stress per battute che si spingono fino alle coste della Turchia e della Grecia. Perché il Canale di Sicilia, il cosiddetto "mammellone", ormai è terra di conquista dei concorrenti nordafricani che lavorano senza regole, con manodopera a costo bassissimo e con il carburante che costa tre volte meno che in Italia.
"Sono due anni e mezzo che lavoro a Mazara - dice Farouk, 23 anni, marocchino - ma da tre mesi non riesco a trovare un imbarco. Sarò costretto anch'io ad andare al Nord a cercare lavoro in campagna".
In banchina di pescherecci fermi non ce ne sono tantissimi. "Ma non si lasci ingannare - dice Nicolò Lisma - almeno in cinquanta sono stati noleggiati per portare al largo le gabbie per i tonni. Da pescherecci si sono trasformati in rimorchiatori, una cosa che fino a dieci anni fa sarebbe stata impensabile, ma adesso lavori come questo sono almeno un introito sicuro. Nessuno di noi può andare avanti non sapendo se da una battuta ricaverà qualcosa o se, invece, come accade da due anni, si lavora solo in perdita".
Lui, ad esempio, appartenente alla più grossa famiglia di armatori di Mazara, è diventato il presidente dell'associazione armatori, ma ha dovuto dismettere tutti e sette i pescherecci della sua flotta. E così hanno fatto molti degli armatori di quello che, con i suoi quasi 400 pescherecci, con un volume d'affari di 450 milioni di euro all'anno e 7000 occupati compreso l'indotto, è il primo distretto della pesca in Italia.
Tanti hanno preferito intascare il contributo ministeriale per la demolizione dei natanti anche se poi tante barche distrutte sulla carta sono finite a società miste italo-tunisine che le utilizzano per pescare "senza regole" in acque internazionali e tirare su quel pescato che poi viene immesso sul mercato a prezzi stracciati.
Eccolo il famoso gambero rosso di Mazara del Vallo: scende "congelato a bordo" da un peschereccio. "Lo vendiamo a 400 euro a cartone - spiega il comandante - dodici chili a 400 euro, al mercato lo trova almeno al doppio. E le triglie? Noi le diamo a 10 euro al chilo, sui banchi non le trova a meno di 20, 25 euro. E' come nell'agricoltura: c'è una filiera troppo lunga e c'è chi specula, il pesce costa troppo caro e la gente non lo compra, ma noi vendiamo a prezzi inalterati da almeno due anni, perché la concorrenza degli stranieri se no non la possiamo affrontare".
Proviamo a fare due conti in tasca a questo peschereccio: "Siamo stati in mare tre settimane - spiega l'armatore - abbiamo consumato 30 tonnellate di nafta a 80 centesimi al litro. Se ci aggiungiamo la cambusa, le assicurazioni e l'attrezzatura, le spese raggiungono il 60 per cento. Quel che resta lo divido a metà con l'equipaggio secondo il "contratto alla parte" che prevede una parte degli utili per i marinai semplici, due parti per il motorista, tre parti al capitano. Alla fine se mi restano 20 mila euro da cui devo anche pagare le tasse, i contributi e la manutenzione all'imbarcazione è tanto".
A Mazara l'unica strada percorribile sembra quella della "pesca sostenibile" alla quale lavora Giovanni Tumbiolo, presidente del distretto pesca. "Quando i costi superano il 60 per cento ogni attività diventa antieconomica. Abbiamo bisogno di regole condivise con gli altri paesi rivieraschi. Il tema non è solo quello del pescatore che perde il lavoro, perché per ogni pescatore ci sono almeno altri tre elementi della filiera a monte e altrettanti a valle che restano a casa. Ci sono a rischio migliaia di posti di lavoro".