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NON È UN PAESE PER GIOVANI

Ritornando sui dati del Rapporto annuale sulla situazione del Paese presentato ieri dall'Istat

24 maggio 2011

"Affrontare le vulnerabilità, assicurare la coesione, accelerare il cambiamento" è il titolo della Sintesi del Rapporto annuale sulla situazione del Paese, illustrata ieri mattina alla Camera dei deputati dal presidente dell'Istat Enrico Giovannini.
Ad ascoltare i suoi dati, molto amari e poco incoraggianti, c'erano il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, i ministri Renato Brunetta e Maurizio Sacconi, rispettivamente della Pubblica amministrazione e Innovazione e Lavoro e Politiche sociali, il sottosegretario della Presidenza del Consiglio, Gianni Letta e tantissime altre autorità delle istituzioni, rappresentanti del parlamento e del mondo della ricerca.
"Questo non è un Paese per giovani" il titolo che potrebbe essere dato al rapporto, prendendolo in prestito dalla puntata di Report andata in onda giusto domenica sera su Rai3. Sì, perché se c'è un dato inconfutabile che emerge dai numeri è che a pagare la crisi sono soprattutto i giovani, che non trovano occupazione, meno che mai stabile.

Prima di illustrare il Rapporto di quest'anno, Giovannini ha ricordato il profondo nesso tra il 150° Anniversario della Unità di Italia e l'Istituto nazionale di statistica che si accinge a condurre il 15° Censimento generale della popolazione. A dimostrazione, ha sottolineato, di come la statistica abbia accompagnato fin dall'inizio la storia del nostro Paese e la accompagni tuttora, grazie all'impegno di tante persone che si dedicano a misurare e analizzare i fenomeni economici, sociali e ambientali.

I DATI. "Nel corso del 2010 l'economia mondiale ha segnato una marcata ripresa, con un'espansione del 5% del Prodotto interno lordo (Pil) misurato a parità di potere d'acquisto. Già sul finire del 2010 la produzione industriale mondiale ha recuperato i livelli pre-crisi e gli scambi internazionali di beni e servizi in volume hanno più che compensato la forte caduta dell'anno precedente. Nell'Unione europea (Ue) la fase di ripresa è stata discontinua e disomogenea: nel 2010 la crescita media è stata dell'1,8% per l'insieme dell'area, risultato su cui ha pesato la forte espansione della Germania (3,6%), mentre Francia e Italia hanno messo a segno incrementi decisamente più contenuti (1,6 e 1,3 per%) e la Spagna ha conseguito un risultato ancora lievemente negativo".

L'ITALIA. "Nel decennio 2001-2010 l'Italia ha realizzato la peggiore performance produttiva tra tutti i paesi dell'Unione europea, con un tasso medio annuo di aumento del Pil di appena lo 0,2%, a fronte dell'1,1% rilevato per l'area dell'euro (Uem). Durante la crisi del 2009 Italia e Germania hanno subito la maggior caduta del prodotto tra i grandi paesi, ma mentre l'economia tedesca ha recuperato già gran parte del reddito perduto, l'Italia presenta ancora un forte divario rispetto ai livelli pre-crisi. Il confronto con le fasi cicliche precedenti conferma che l'episodio recessivo conclusosi nell'aprile del 2009 (secondo la cronologia definita in termini tecnici nel Rapporto) è di gran lunga il più grave dal secondo dopoguerra. La fase di espansione in atto risulta però di intensità minore rispetto a quelle osservate nel passato. Il ritmo di crescita congiunturale del Pil italiano si è marcatamente indebolito a partire dall'autunno 2010 (+0,1 per cento a trimestre)".

SCENDE IL TASSO DI RISPARMIO DELLE FAMIGLIE. "L'andamento dei consumi delle famiglie è stato condizionato dal calo del potere d'acquisto, diminuito del 3,1% nel 2009 e poi ancora dello 0,6% nel 2010. Per salvaguardare i livelli di spesa, le famiglie italiane hanno dato luogo a una progressiva erosione del tasso di risparmio, sceso al livello più basso tra tutte le altre grandi economie dell'area dell'euro. Ciononostante, nel 2010 i consumi privati in volume sono risultati ancora inferiori dell'1,7% rispetto al livello del 2007. Nel triennio, la contrazione più marcata ha riguardato i beni durevoli, mentre l'acquisto di servizi, che rappresenta metà della spesa complessiva, ha presentato fluttuazioni molto contenute e una tendenza espansiva nel periodo recente".

LA DOMANDA DI LAVORO E LA PRODUTTIVITA'. "Nella recente fase di recupero dell'attività produttiva, l'input di lavoro ha continuato a diminuire, ma con un ritmo in progressiva attenuazione sino a mostrare un primo segnale di inversione di tendenza all'inizio del 2011. A un aumento del prodotto interno lordo dell'1,3 per cento è corrisposta nel 2010 una riduzione dell'occupazione, in termini di unità di lavoro a tempo pieno (Ula), dello 0,7%, dopo la caduta del 2,9 per cento nel 2009. Nella fase recessiva la riduzione dell'occupazione è stata contenuta grazie a un ricorso senza precedenti alla Cassa integrazione guadagni (Cig). Nella prima parte del 2010 l'utilizzo della Cig ha iniziato a diminuire, pur con un andamento incerto, cosicché l'incidenza di quest'ultima sulle ore lavorate è scesa, a fine anno, al 3%. Dopo la forte caduta del biennio 2008-2009 tali andamenti hanno determinato un recupero ciclico della produttività, ma il livello del valore aggiunto per unità di lavoro è tornato solamente ai livelli del 2000. La dinamica stagnante della produttività che ha caratterizzato l'ultimo decennio ha costituito un limite naturale all'espansione del potere d'acquisto e, quindi, dei consumi. D'altro canto, essa ha causato un aumento comparativamente più forte del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto agli altri paesi, peggiorando la competitività dei prodotti italiani".

MIGLIORA IL QUADRO DI FINANZA PUBBLICA. "Per il complesso delle economie europee l'eredità più pesante della crisi è rappresentata dal deterioramento dei conti pubblici. Il processo di aumento del debito pubblico è proseguito anche nel 2010, benché le condizioni macroeconomiche siano migliorate e l'indebitamento netto si sia ridotto di tre decimi di punto nell'area dell'euro. Nonostante l'impatto combinato di una caduta più importante del prodotto e di oneri più elevati sullo stock di debito, l'Italia è riuscita a contenere nell'ultimo triennio l'aumento del rapporto tra debito e Pil a poco più di 15 punti percentuali, contro circa 18 punti di crescita in Francia e Germania, 24 in Spagna e oltre 35 nel Regno Unito. Nel nostro Paese la politica di bilancio non ha dovuto effettuare interventi per salvaguardare il sistema finanziario, relativamente poco esposto alla crisi del 2008, e - considerati i limitati margini di manovra - ha fatto un uso molto parsimonioso delle risorse disponibili, concentrando le azioni di contrasto alla crisi sulla tutela degli occupati con contratti standard. Nel corso del 2010, il miglioramento delle condizioni macroeconomiche e l'avvio di politiche di rientro hanno condotto a una riduzione del rapporto tra indebitamento netto e Pil in tutte le grandi economie, a eccezione della Germania. In Italia, il rapporto deficit/Pil è passato (escludendo l'effetto degli swap) dal 5,3 al 4,5%. Il miglioramento è dovuto agli interventi di contenimento della spesa, la cui incidenza sul Pil è diminuita di oltre un punto percentuale, a fronte di una più moderata contrazione della quota delle entrate. La pressione fiscale è scesa così al 42,6%, 0,5 punti in meno rispetto al valore rilevato l'anno precedente, sul quale aveva pesato significativamente il rientro dei capitali dall'estero (il cosiddetto 'scudo fiscale')".

IL POSIZIONAMENTO INTERNAZIONALE DELL'ITALIA. "Nel 2010 gli scambi commerciali con l'estero sono ripresi a ritmi elevati (+15,8 per cento per le esportazioni e +23,4 per cento per le importazioni), ma insufficienti a recuperare i livelli del 2008, con un divario più contenuto per le importazioni (- 3,9 punti percentuali) rispetto alle esportazioni (-8,5 punti percentuali). Ciò ha determinato un aumento sostanziale del disavanzo commerciale, che nel 2010 ha superato i 29 miliardi di euro (era di 13 miliardi nel 2008). In particolare, il disavanzo energetico si riduce lievemente rispetto al periodo pre-crisi, passando da 59 miliardi nel 2008 a 53 miliardi nel 2010, mentre quello relativo ai prodotti intermedi aumenta di 9,5 miliardi. D'altra parte, l'avanzo dei beni strumentali si è ridotto di 5,1 miliardi, quello dei beni di consumo durevoli di 4,4 miliardi e quello di beni di consumo non durevoli si è trasformato in un disavanzo di 1,9 miliardi, con una contrazione, in termini assoluti, pari a 3,9 miliardi".

IL MERCATO DEL LAVORO. "Tra il 2008 e il 2010 il numero di occupati è diminuito di 532 mila unità: in più della metà dei casi si tratta di persone residenti nel Mezzogiorno, cosicché in quest'area l'occupazione è tornata sui livelli dell'inizio del decennio. La contrazione ha riguardato anche il Nord (-1,9 per cento, pari a 228 mila unità in meno), mentre le regioni centrali sono passate sostanzialmente indenni attraverso la crisi. Con la recessione circa metà della crescita osservata tra 2000 e 2008 per l'occupazione maschile è andata persa; d'altra parte, la flessione di quella femminile ha determinato l'interruzione della tendenza alla crescita della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Nonostante il diffuso ricorso alla Cig, la perdita di manodopera industriale (-404 mila unità tra 2008 e 2010) ha contribuito per i tre quarti alla caduta occupazionale totale. Il fenomeno ha assunto dimensioni di estrema gravità nel Mezzogiorno, con un ritmo di discesa doppio (-13,8 per cento) rispetto a quello del Centro-Nord (-6,9 per cento). Al calo della trasformazione industriale si è accompagnata una flessione più contenuta del terziario (-84 mila unità), concentrata nel 2009 e nel lavoro autonomo. In complesso, il tasso di occupazione è sceso dal 58,7 per cento del 2008 al 56,9 per cento del 2010.
I giovani (18-29 anni) sono stati i più colpiti dalla recessione, con una perdita di 482 mila unità nel biennio 2009-2010. Il tasso di occupazione specifico, già sceso tra il 2004 e il 2008 dal 49,7 al 47,7 per cento, è diminuito negli ultimi due anni di circa sei punti percentuali. Nel 2010 era occupato circa un giovane su due nel Nord e meno di tre su dieci nel Mezzogiorno. La tenuta della manodopera adulta ha compensato, almeno in parte, la perdita di lavoro tra i giovani, anche a causa del progressivo innalzamento dei requisiti anagrafici e contributivi per l'accesso alla pensione, che ha comportato la maggiore permanenza nell'occupazione della forza lavoro con almeno 50 anni di età. A fronte di un recupero ancora incerto dell'attività economica, la riattivazione della domanda di lavoro si è incanalata soprattutto verso assunzioni con contratti flessibili. Nell'ultimo biennio sono aumentate la disoccupazione e l'inattività: tra il 2008 e il 2010 il tasso di disoccupazione è passato dal 6,7 all'8,4 per cento, restando significativamente al di sotto di quello europeo, anche grazie al ricorso alla Cig. Peraltro, l'aumento del numero di disoccupati è stato frenato da un allargamento dell'area dell'inattività, la cui incidenza sulla popolazione in età attiva è salita al 37,8 per cento, un valore tra i più alti nel panorama europeo.
Per i giovani si è ridotta la probabilità di passare da un lavoro atipico a uno standard: ogni 100 giovani con contratto atipico nel primo trimestre 2009, solo 16 sono occupati stabilmente dopo un anno (10 in meno dell'anno precedente), mentre è cresciuta l'incidenza di quelli rimasti occupati a tempo determinato o con un rapporto di collaborazione (da 51 nel 2008-2009 a 60 nel 2009-2010). Di conseguenza, la quota di giovani occupati con contratti a tempo determinato o collaborazioni è del 30,8%: si tratta di più di un milione di unità".

I GIOVANI NEET. "Nel 2010 è aumentato il numero delle persone tra 15 e 29 anni fuori dal circuito formativo e lavorativo (Neet). Si tratta di 2,1 milioni di unità, 134 mila in più dell'anno precedente, pari al 22,1 per cento della popolazione di questa età, una quota nettamente superiore a quella tipica degli altri paesi europei. La maggioranza dei Neet rilevati nel 2010 è stata tale anche in almeno due dei tre anni precedenti il momento dell'intervista, dato questo che segnala una preoccupante persistenza in questa condizione di esclusione".

LE DONNE. "Nel corso del 2010, a fronte della stabilità dell'occupazione femminile, è peggiorata la qualità del lavoro delle donne: è diminuita, infatti, l'occupazione qualificata, tecnica e operaia ed è aumentata quella a bassa specializzazione, dalle collaboratrici domestiche alle addette ai call center. Lo sviluppo dell'occupazione femminile part time nel 2010 è stato poi caratterizzato dalla diffusione dei fenomeni di involontarietà, mentre è andato ampliandosi il divario di genere nel sottoutilizzo del capitale umano: il 40% delle laureate ha un lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto al titolo posseduto". [AISE]

 

 

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24 maggio 2011
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