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Nuovi indagati per le stragi di mafia del '92

I magistrati di Caltanissetta avrebbero iscritto nel registro degli indagati anche persone non direttamente legate con Cosa nostra

29 luglio 2009

Ci sono nuovi indagati per le stragi del 1992 a Palermo: uno per la strage di Capaci, una decina per quella di via D'Amelio e uno per il fallito attentato a Giovanni Falcone all'Addaura nell'89. I magistrati della Procura di Caltanissetta, come riportato ieri dal 'Giornale di Sicilia', li hanno iscritti nel registro degli indagati e si tratterebbe non solo di mafiosi.
Per l'eccidio di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta spunta il nome di un uomo, organico ai clan e già in carcere, ma mai coinvolto nelle indagini sulla strage e che avrebbe avuto un ruolo da organizzatore.
A dare nuovo impulso alle inchieste ci sarebbero le dichiarazioni dei pentiti Angelo Fontana detto 'U miricano', ex padrino mafioso del quartiere palermitano dell'Acquasanta, e Gaspare Spatuzza, l'uomo che sparò a don Pino Puglisi, che stanno alimentando piste nuove. In particolare Fontana, che subito dopo aver deciso di collaborare ha fatto trovare un 'bunker della morte' di Cosa nostra, avrebbe detto di aver riconosciuto in tv attraverso le immagini di via D'Amelio, dopo la strage in cui morì Paolo Borsellino, uomini dei servizi segreti.

"Dopo 17 anni non è facile riprendere le indagini e rifare i processi basandoci sulle dichiarazioni di Spatuzza. Noi continuiamo a indagare collaborando con la Dda di Palermo; di altro non posso dire nulla, solamente che abbiamo già interrogato Riina sulle stragi del '92''. Sono le parole del procuratore capo di Caltanissetta, Sergio Lari, che assieme all'aggiunto Domenico Gozzo e al sostituto della Dda nissena Nicolò Marino, sta conducendo le indagini a carico di una decina di persone, tra mafiosi già in carcere e appartenenti ai servizi segreti, su alcuni interrogativi rimasti senza risposta nelle inchieste sulle stragi. La Dda nissena vuole scoprire chi ha premuto il pulsante che ha innescato le cariche di dinamite che uccisero Paolo Borsellino il 17 luglio 1992 e poi cosa c'è di vero sulle presunte infiltrazioni degli apparati segreti dello Stato nella pianificazione degli attentati del 1992. I tre magistrati nisseni hanno sentito il boss Totò Riina sabato scorso (LEGGI). Si indaga anche sul "papello" (le richieste che Riina avrebbe fatto allo Stato) che Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, ex sindaco di Palermo, sostiene di volere consegnare all'autorità giudiziaria. Indagini della Dda nissena sono in corso anche sull'agenda rossa, misteriosamente sparita, sulla quale Paolo Borsellino avrebbe annotato appunti di lavoro dopo la morte di Giovanni Falcone.

Ieri, inoltre, i magistrati fiorentini Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi hanno interrogato nel carcere di Opera, a Milano, Giuseppe Graviano, già condannato all'ergastolo per le stragi mafiose con autobombe del 1993, in qualità di 'testimone assistito'. I pm Crini e Nicolosi, seguono le indagini sui 'mandanti esterni' degli attentati di 16 anni fa, fra cui quello a Firenze in via dei Georgofili. "L'interrogatorio è stato breve - ha spiegato Jacopo Pepi, difensore di Graviano - il mio assistito si è limitato a ribadire la sua estraneità ai fatti e a lamentare i trattamenti disumani del 41 bis". [Informazioni tratte da Adnkronos/Ing, Ansa.it]

Un pentito che ha ritrattato: mi hanno costretto a confessare
POLIZIOTTI INDAGATI PER DEPISTAGGIO SULLA STRAGE DI VIA D'AMELIO

di Giovanni Bianconi (Corriere.it, 29 luglio 2009)
 
C'è l’inchie­sta sulla strage e c’è l’inchiesta sul­le indagini svolte 17 anni fa, per la stessa strage. A questo sdoppia­mento è giunto il lavoro dei magi­strati di Caltanissetta intorno all’ec­cidio del 19 luglio 1992, nel quale morirono Paolo Borsellino e cin­que agenti della sua scorta. Strage mafiosa ma non solo, come quasi tutti ormai pensano; strage con eventuali «mandanti occulti» non individuati; strage con alcuni col­pevoli condannati da sentenze defi­nitive, ma forse non tutti davvero colpevoli. Ecco perché le inchieste sono ancora aperte.

Da un lato si cercano i responsa­bili rimasti impuniti, di tutte le ca­tegorie. Tra gli «uomini d’onore» rimasti fuori dalle precedenti inda­gini, le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza - boss del quar­tiere palermitano di Brancaccio, che riempie verbali su verbali da un anno, dopo averne trascorsi 11 a regime di «carcere duro» - hanno portato ad almeno un nuovo inda­gato; su di lui sono in corso accerta­menti e riscontri alle accuse del nuovo collaboratore di giustizia. Oltre la mafia, nel campo di ipotiz­zate collusioni e del ruolo di possi­bili «apparati deviati dello Stato», compresi esponenti dei servizi se­greti, la situazione è più comples­sa; si continua a scavare su coinci­denze, parentele, contatti telefoni­ci sospetti emersi nei processi già celebrati, per tentare di arrivare a conclusioni più concrete.
Dall’altro lato gli inquirenti gui­dati dal procuratore Sergio Lari hanno riaperto il capitolo delle in­chieste avviate nel ’92, subito dopo la strage. Quelle che hanno portato a tre diversi processi e alle senten­ze confermate dalla Cassazione. Ora una parte di quella verità giudi­ziaria potrebbe essere riscritta, pro­prio a partire dalle dichiarazioni di Spatuzza, dai riscontri effettuati e dalle conseguenti ritrattazioni di al­meno un altro pentito, vero o pre­sunto che sia.

Il neo-collaboratore - autore tra gli altri delitti dell’omicidio di padre Pino Puglisi, il parroco anti­mafia di Brancaccio ucciso nel 1993 - ha svelato di essere l’auto­re del furto della Fiat 126 utilizzata per fabbricare l’auto-bomba esplo­sa in via D’Amelio. Offrendo indica­zioni precise, puntualmente verifi­cate. Del furto s’era accusato, nel 1992, tale Salvatore Candura, mez­zo balordo e mezzo mafioso che og­gi, di fronte alle rivelazioni di Spa­tuzza, confessa di essersi inventato tutto. O meglio, di aver ripetuto ciò che alcuni investigatori lo ave­vano costretto a riferire ai magi­strati. Di qui la nuova indagine aperta dalla Procura di Caltanisset­ta a carico di quegli investigatori: i nomi di due o tre poliziotti che fa­cevano parte del Gruppo investiga­tivo Falcone-Borsellino, creato al­l’indomani delle stragi, sono già fi­niti sul registro degli indagati. Ipo­tesi di reato, calunnia.
Di fatto si ipotizza un possibile depistaggio messo in atto con le fal­se dichiarazioni di Candura, che hanno portato alle confessioni del­l’altro «pentito» Vincenzo Scaranti­no, su cui sono fondate parte delle condanne confermate in Cassazio­ne; confessioni false, se sono vere quelle di Spatuzza e ora di Candu­ra. Indotte dagli investigatori, se­condo la nuova ricostruzione di quest’ultimo. I magistrati nisseni hanno riassunto la situazione nel parere col quale hanno aderito alla proposta di protezione per Spatuz­za; lì scrivono che uno dei riscontri alle dichiarazioni del neo-pentito consiste proprio nella ritrattazione di Candura. Il quale «ha formulato pesanti accuse nei confronti di al­cuni esponenti della Polizia di Sta­to, a suo dire responsabili di averlo indotto a dichiarare il falso».
Ipotesi grave e inquietante. Per­ché il depistaggio, qualora fosse re­almente stato organizzato come fa credere Candura, dovrebbe avere un movente. Dev’essere il frutto di una decisione presa a tavolino nel­le settimane immediatamente suc­cessive all’eliminazione di Paolo Borsellino (e due mesi dopo la mor­te di Falcone nella strage di Capa­ci), per indirizzare le indagini su una falsa verità consacrata fino al verdetto della Cassazione. Per qua­le motivo? Per coprire quale realtà alternativa? E con l’avallo, o su mandato, di chi? A quale livello po­litico o investigativo?

Sono tutte domande alle quali dovrebbe rispondere l’inchiesta, se dovesse accertare che Candura, ora, non mente più. Ma resta aper­ta anche l’altra ipotesi, e cioè che lui allora si sia autoaccusato per sua libera scelta, tirando in ballo un personaggio come Scarantino (sulla cui attendibilità molti hanno nutrito dubbi, a cominciare dal pubblico ministero Ilda Boccassini che li mise nero su bianco nel 1994, al momento di lasciare Calta­nissetta) senza chiamare in causa mafiosi di ben altro profilo. Anche Candura è indagato nel nuovo pro­cedimento (l’ipotesi di reato è auto­calunnia), in attesa che gli accerta­menti portino a fare un po’ di chia­rezza sull’intricata vicenda. E con lui, Scarantino, che anche di fronte alla nuova verità di Spatuzza ha in­vece confermato quanto dichiarato nelle indagini e nei processi prece­denti. Lo ha fatto negli interrogato­ri e durante il confronto con il neo-pentito, seppure dopo qual­che minuto di riflessione.
Nell’ambito dell’indagine sui po­liziotti accusati di aver «imbocca­to » Candura sono già stati ascoltati come testimoni alcuni magistrati che fra il ’92 e il ’94 si occuparono delle indagini sulla strage di via d’Amelio, tra i quali la stessa Boc­cassini, Carmelo Petralia e Paolo Giordano. Gli accertamenti prose­guono per tentare di venire a capo, a 17 anni dai fatti, del presunto de­pistaggio sulla più misteriosa delle stragi di mafia del ’92-’93; oppure, se le accuse si rivelassero false, del depistaggio messo in atto oggi.

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29 luglio 2009
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