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Omaggio a due grandi del cinema italiano: Pietro Germi e Gian Maria Volontè

Il 5 dicembre del '74 moriva il regista Pietro Germi. Il 6 dicembre del '94 moriva l'attore Gian Maria Volontè

06 dicembre 2004

Vogliamo rendere omaggio a due grandi del cinema italiano, il regista Pietro Germi e l'attore Gian Maria Volontè, scomparsi rispettivamente il 5 dicembre del 1974 e il 6 dicembre del 1994

''Divertire non significa soltanto far ridere, ma far ridere e far piangere o emozionare o tenere sospesi con il fiato in gola''.
Pietro Germi

Con la sua arte di fare cinema Pietro Germi ha emozionato le platee di tutto il mondo, regalando commozione e sorrisi anche all'interno di una stessa storia. Emozioni in bianco e nero e a colori, tradotte in musica da Carlo Rustichelli, che dalla sua seconda regia (Gioventù perduta, 1947) in poi ha composto tutte le colonne sonore dei suoi film.
Nato a Genova il 14 settembre 1914, unico maschio dopo tre sorelle, rimane orfano di padre quando ha solo 10 anni. Nel 1931 si iscrive all'Istituto Nautico della sua città perché sogna di viaggiare e di diventare capitano. Lo abbandona dopo tre anni, ma fa in tempo a compiere una crociera che tocca i porti di Marsiglia, Barcellona, Atene e Bari. A vent'anni ha imparato il russo, ama il cinema di René Clair e di John Ford ed ha già scoperto il piacere di fumare quel mezzo sigaro toscano che l'accompagnera anche sul grande schermo. Magari indossando gli occhiali scuri del commissario Ingravallo, sempre polemico nel sottolineare a chiunque, quasi fosse un'offesa, 'non sono dottore'. (Un maledetto imbroglio, 1959).

Da ragazzo e un tipo solitario, un timido aggressivo, con la nostalgia della gente. Proprio come quando interpreterà Andrea, tutto solo davanti ad un bicchiere di vino mentre intorno l'umanità torna a casa per festeggiare il Capodanno (L'uomo di paglia, 1957). Prima della guerra si stabilisce a Roma e si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove si diploma prima in recitazione e poi in regia. Alessandro Blasetti gli offre di lavorare come suo assistente per ''Retroscena'' (1939) e tiene a battesimo anche il suo fugace debutto di attore in ''La corona di ferro'' (1941).
Si è sposato da poco quando viene richiamato alle armi e si ammala di pleurite. Durante la lunga convalescenza comincia a progettare il suo primo film, ''Il testimone'' (1945), che si ostina a voler dirigere da solo, anche se accetta la supervisione di Blasetti.
Negli anni successivi s'impone subito all'attenzione della critica e riscuote i favori del pubblico, anche rivisitando la lezione fordiana per realizzare un film sulla mafia (In nome della legge, 1949). Contemporaneamente deve affrontare gli ostacoli da parte della censura come per ''Il cammino della speranza'' (1950), definito da Nicholas Ray ''Il film più emozionante e pieno di poesia che io abbia mai visto''.

Si e da poco separato dalla moglie quando dirige ''Il ferroviere'' (1956), dedicato alla figlia Livia e da lui stesso interpretato, dopo aver pensato a Spencer Tracy per il ruolo da protagonista. Marcello Mastroianni in ''Divorzio all'italiana''
Come regista sembra avere buoni rapporti più con le comparse che con gli attori, i quali comunque, grazie ai suoi film, si guadagnano ogni genere di ambiti riconoscimenti. Compreso Saro Urzì, uno di quelli a lui più cari, pluripremiato per ''Sedotta e abbandonata'' (1963). Nei primi anni '60, a dispetto di tutti quelli che lo credono un regista capace solo di far piangere, intraprende il genere della commedia che con lui arriva ad arricchirsi di elementi satirici e grotteschi. ''Divorzio all'italiana'' (1961) riceve una nomination all'Oscar e vince l'Oscar come miglior sceneggiatura (scritta insieme a Alfredo Giannetti e Ennio De Concini).
Il suo cinema varca presto i confini nazionali, spopola a Cannes (Signore e signori, 1965, riceve la Palma d'Oro), mentre lui sembra aver trovato un nuova stabilita affettiva con Olga D'Ajello, la donna che sposa nel 1966 e dalla quale avrà tre figli. In seguito, pur dirigendo due beniamini della musica italiana, Adriano Celentano (Serafino, 1968) e Gianni Morandi (Le castagne sono buone, 1970), non rinuncia alla collaborazione di Carlo Rustichelli.

Agli inizi degli anni '70 si ammala di una grave forma di cirrosi epatica, ma fa in tempo a raccontare sul grande schermo le disavventure amorose di un timido ''Alfredo Alfredo'' (Dustin Hoffman eccezionalmente trapiantato nella provincia italiana), in fin dei conti allergico più al matrimonio che alle donne. Anche se le sue mogli sono belle come Stefania Sandrelli e Carla Gravina.
Muore a Roma il 5 dicembre 1974, lo stesso giorno del primo ciak di ''Amici miei'' (1975), film da lui ideato e poi diretto da Mario Monicelli.


"Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l'arte e la vita".
Gian Maria Volontè

Grandissimo attore, ha recitato le maschere del potere e dell'impotenza d'Italia, i protagonisti della violenza, della mitezza paziente e delle zone torbide d'ambiguità, il bene, il male, la reticenza: come i veri grandi, la cui ambizione eroica e impossibile è sempre quella di rappresentare tutto.
Uomo coraggioso e morale, ha fatto le sue scelte con coerenza senza rinunce nei momenti difficili, senza compromessi né viltà. È stato il più ideologico degli attori italiani: non per passione d'ideologia o perché fosse di sinistra o partecipasse a manifestazioni o si esibisse nel teatro di strada, ma perché ha voluto, cercato e spesso avuto ruoli forti significativi, personaggi da vivere e far vivere, non da indossare come vestiti. Con gli anni era diventato quasi bello (così magro, così elegante, così desolato), ed era molto simpatico. Oltre la timidezza scontrosa, la riservatezza riottosa, la fermezza pudica nell'astenersi dai riti banali e a volte scemi dello spettacolo, in certe piccole risate sussultanti o in certi scatti tempestosi riconoscevi l'uomo delle passioni: quello che andava in barca per mare durante intere giornate o settimane, che amava la politica, che amava le donne (dopo la separazione dalla prima moglie Tiziana Mischi, altre compagne o mogli erano state Carla Gravina, Armenia Balducci, Angelica Ippolito), che amava la vita e aveva saputo battersi da guerriero anche contro un tumore ai polmoni costatogli anni di sofferenza e d'assenza.

Milanese, s'era diplomato all'Accademia d'arte drammatica nel 1957, aveva recitato in teatro (Fedra, Sacco e Vanzetti, Sogno d'una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta, Zio Vanja) e alla televisione (Rogozin ne L'idiota, sceneggiato da Dostoevskij). Era arrivato al cinema nel 1960 in ''Sotto dieci bandiere'' di Duilio Coletti come ci arrivano gli attori di teatro: con diffidenza, per caso, per fare un po' di soldi. Invece era un destino. Ha portato sullo schermo uomini-chiave (Enrico Mattei, Aldo Moro, Ben Barka, Lucky Luciano) e figure cruciali della società (operaio settentrionale, contadino meridionale, militare, magistrato, comunista sotto il fascismo, sindacalista, poliziotto, criminale, leader politico, giornalista e direttore e proprietario di giornali).
Ha lavorato per registi stranieri (Theo Anghelopulos con ''Lo sguardo di Ulisse'' era soltanto l'ultimo, prima c'erano stati Jean-Luc Godard, Miguel Littin, Claude Goretta, altri). Ha creato un'intesa straordinaria di reciproca necessità con alcuni dei migliori registi italiani: Elio Petri (''A ciascuno il suo'', ''Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto'', ''La classe operaia va in paradiso'', ''Todo Modo''); Francesco Rosi (''Uomini contro'', ''Il caso Mattei'', ''Lucky Luciano'', ''Cristo si è fermato a Eboli''); Paolo e Vittorio Taviani (''Un uomo da bruciare'', ''Sotto il segno dello Scorpione''). Ma anche quando, agli inizi, compariva in ''Ercole alla conquista di Atlantide'', oppure quando recitava ghignanti banditi sadici per Sergio Leone o rivoluzionari messicani per Damiano Damiani, a quei personaggi dava spessore, significati, una rilevanza non mestierante.

Le lodi maggiori andavano alla sua versatilità, al camaleontismo perfezionista, alle impressionanti capacità di trasformarsi, all'abilità di cogliere somiglianze, al talento di diventare un altro, altri: ma chissà se erano tanto giuste. Gian Maria Volontè nei panni di ''Lucky Luciano''Gian Maria Volonté non imitava, non impersonava. La sua arte arrivava a svelare e restituire le caratteristiche anche più segrete d'una persona, a condensare d'un personaggio quell'essenza fatta pure di memoria, cultura, psicologia e funzione nella collettività. Vederlo recitare il poliziotto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, l'operaio nevrotico de La classe operaia va in paradiso, il giudice ostinato di Porte aperte di Gianni Amelio, il professore testimone lucido e scorato di fatti intollerabili alludente a Leonardo Sciascia in Una storia semplice di Emidio Greco, voleva dire per gli spettatori comprendere meglio e in profondità quei ruoli sociali e anche l'Italia: non semplicemente aver assistito a uno spettacolo ma aver vissuto un'esperienza, e non dimenticarla.

A Volonté piaceva andarsene per il mondo, anche per imprese imperfette come ''Tirano Banderas'' di José Luis Garcia Sanchez, storia ispano-cubana d'un dittatore latinoamericano, o come ''L'opera al nero'' di André Delvaux tratto dal romanzo di Marguerite Yourcenar o come ''Pestalozzi Berg'' di Peter van Gunten, cinebiografia svizzero-tedesca dell'educatore esemplare: "Amo girare per le culture, conoscere, dare il mio contributo soprattutto agli scambi europei".
Aveva, come tanti, brutti periodi di depressione, ma tentava di combatterli con la razionalità: "Cerco di capire, di intuire le ragioni della mia depressione, di superarla se è possibile". Come tanti, provava il sentimento di vuoto e di solitudine di chi ha impegnato se stesso nelle speranze di cambiamento per ritrovarsi con il dubbio che tutto sia stato invano: "Ma disperato no, non sono. Resta sempre un terreno inesplorato dove la speranza può rinascere, e questo terreno può essere il domani".

Lietta Tornabuoni (La Stampa, 7 Dicembre 1994)

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06 dicembre 2004
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