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Paolo Borsellino sapeva...

Tre grandi filoni processuali e 11 dibattimenti non sono stati sufficienti a scrivere la verità sulla strage di via D'Amelio

09 marzo 2012

Il giudice Paolo Borsellino sapeva. Sapeva dell'esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia. I magistrati di Caltanissetta ne sono convinti, e nero su bianco lo hanno scritto nell'ambito dell'inchiesta che all'alba di ieri ha portato all'esecuzione di quattro ordinanze di custodia cautelare in carecere, tra cui quella per uno dei presunti mandanti, il boss Salvuccio Madonia (LEGGI).
Una trattativa che pezzi dello Stato avrebbe voluto fare con una mafia devenuta ancura più scellerata e folle; una mafia terroristica pronta a fare saltare in aria persone e luoghi.
Dalle indagini emerge "che della trattativa era stato informato anche il dottor Borsellino il 28 giugno del 1992. Quest'ultimo elemento aggiunge un ulteriore tassello all'ipotesi dell'esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale 'ostacolo' da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage", scrivono i Pm nisseni facendo riferimento alla testimonianza del magistrato Liliana Ferraro, ex direttore generale del Ministero della Giustizia.
Dunque, Borsellino venne ucciso perché Totò Riina non poteva più sopportare questo "ostacolo" alla trattativa che "sembrava essere arrivata su un binario morto". E per il boss dei boss la maniera per "rivitalizzarla" era quella di esibire una una sanguinaria potenza.
Ne sono convinti i magistrati nisseni. "La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall'esistenza e dalla evoluzione della così detta trattativa tra uomini delle Istituzioni e 'cosa nostra'".

Le falsità di Ciancimino jr - Ieri, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, nel corso della conferenza stampa sui nuovi arresti per la strage di via D'Amelio, ha attaccato l'atteggiamento di Massimo Ciancimino nella vicenda. "È sconcertante il silenzio mantenuto in questi anni sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra, il solo merito che gli riconosciamo è quello di avere risvegliato i contatti che ci furono con uomini politici dell' epoca e che sono stati però verificati dal nostro ufficio. Per il resto Massimo Ciancimino è inattendibile in quasi tutte le sue dichiarazioni".
"Lui si presenta come collaboratore di giustizia di fatto, ma per noi lo non è - ha puntualizzato il procuratore - Se fosse tale avrebbe dovuto sottostare ad alcune regole dichiarando tutte le informazioni a sua conoscenza, i beni in suo possesso e non parlare con i giornalisti".
Lari ha sottolineato che la procura nissena "ha esaminato 190mila file che riguardano Ciancimino, e molte sue affermazioni sono false. La documentazione da lui presentata, inoltre, non è utilizzabile perché non ne abbiamo accertato la paternità come i pizzini di Provenzano che non corrispondono alle verifiche calligrafiche. Anche sul famoso papello la documentazione di Ciancimino è diversa da quella che avevamo in nostro possesso e su cui siamo certi dell'autenticità".
In merito al fantomatico signor "Carlo Franco", l'uomo delle Istituzioni che secondo Massimo Ciancimino avrebbe avuto contatti con il padre Vito, il procuratore Lari conferma che c'è un fascicolo aperto a carico di ignoti e che ancora non è stato individuato nessuno: "Anche in questo caso Ciancimino ha cambiato più volte versione passando da Carlo Franco al sig. Gross. Per cui il nostro giudizio su di lui, attualmente, è negativo".

L'inaffidabilità di Massimo Ciancimino è stata sottolineata anche dal Gip Alessandra Bonaventura Giunta. Secondo il giudice, il comportamento processuale di Massimo Ciancimino "è stato influenzato e distorto da una struttura della personalità connotata da marcati atteggiamenti istrionici". Il Gip si chiede se dietro ci sia "una strategia di depistaggio e calunnatoria" nei confronti delle Istituzioni "nell'interesse e con l'avallo di Cosa nostra o soltanto da Massimo Ciancimino per tutelare interessi personali" e se "dietro a questi atteggiamenti" invece "non si nasconda una regia occulta". La chiave di lettura della Procura di Caltanissetta, che lo ha da tempo indagato per calunnia, reato per il quale il figlio dell'ex sindaco di Palermo, Vito, è stato arrestato a Palermo, è nella convinzione di Massimo Ciancimino di "potere salvaguardare il proprio patrimonio e la propria persona dalle inchieste giudiziarie". Per il Gip di Caltanissetta, quindi, le uniche dichiarazioni di Ciancimino utilizzabili in processo sono quelle sull'inizio della trattativa tra mafia e Istituzioni, che trovano riscontro in testimonianze rese da personalità istituzionali allora ai vertici dello Stato.

Verso il "Borsellino quater" - Tre grandi filoni processuali e undici dibattimenti non sono stati sufficienti a scrivere la verità sulla strage di via D'Amelio. Purtroppo. Dopo quasi vent'anni la vicenda giudiziaria non è ancora conclusa e anzi si prepara un "Borsellino quater" (che in realtà è una sorta di 1 bis) che dovrebbe giudicare le persone arrestate ieri mattina, nel caso di un loro rinvio a giudizio.
Un altro processo di revisione, davanti alla corte d'appello di Catania, riguarda invece la posizione di sette imputati condannati all'ergastolo, scagionati dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Ma il dibattimento potrà cominciare solo dopo la condanna degli indagati di quest'ultimo filone d'indagine.

Nel primo processo "storico" nato dalle indagini del pool guidato da Arnaldo La Barbera erano imputati quali esecutori Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino, Pietro Scotto e il falso pentito Vincenzo Scarantino. In primo grado i primi tre furono condannati all'ergastolo e Scarantino a 18 anni. In appello sono stati confermati l'ergastolo solo per Profeta e i 18 anni per Scarantino. Orofino è stato condannato a 9 anni per favoreggiamento e Scotto assolto. Le condanne sono definitive.
Il "processo bis", in cui erano imputati i boss della cupola, si è concluso il 18 marzo del 2004 con 13 ergastoli per Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto, Francesco Tagliavia, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana.
Il "Borsellino ter" è accorpato a uno dei filoni processuali della strage di Capaci e si è concluso nel 2006 con altri 18 ergastoli dopo che la Cassazione aveva parzialmente annullato una sentenza del 2003 della Corte d'assise d'appello di Caltanissetta e trasferito il dibattimento a Catania. All'ergastolo sono stati condannati Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo il "corto" e Salvatore Biondo il "lungo", Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto "Nitto" Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera. Condannati a varie pene anche cinque collaboratori: Antonino Giuffrè, Stefano Ganci, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Giovambattista Ferrante.
Nel filone processuale sottoposto a revisione dovrebbero essere giudicati i sette già condannati con sentenze definitive, chiamati in causa da Scarantino, che invece sarebbero estranei alla strage. Sono Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Gaetano Murana e Natale Gambino.

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, ANSA, Lasiciliaweb.it, AGI, GdS.it]

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09 marzo 2012
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