Per non fuggire anche quando se ne sente forte l'esigenza... Una considerazione di Padre Gianni Notari
LA DOPPIA FUGA
di padre Gianni Notari (direttore del Centro Pedro Arrupe di Palermo)
La decima edizione del rapporto annuale su “Gli italiani e lo Stato”, pubblicata recentemente, ci offre un quadro non entusiasmante della realtà del nostro Paese. Non si ha più fiducia. Il futuro appare incerto e carico di rischi. Tutte le istituzioni sono percepite incapaci di dare prospettive e ad esse si guarda con diffidenza. Ci si sente soli in un mondo insicuro e senza progetto.
Questa percezione diffusa intacca profondamente il vissuto e l'interiorità della persona: sembra imporsi il silenzio della speranza. Non interessa più a nessuno sapere che il mondo, come dice un verso di Brecht, ha bisogno di essere cambiato e riscattato. Ci si arrende alle cose come sono e non si lotta più per le cose così come dovrebbero essere. Tutto appare provvisorio, instabile; ogni equilibrio morale, politico ed economico è messo in discussione.
In Sicilia, tale sentimento diffuso di precarietà si somma con l'ambiguità di un contesto caratterizzato da un perdurante sottosviluppo intriso di assistenzialismo e relazioni clientelari, da bassi livelli di fiducia verso l'altro e le istituzioni, da un “familismo” chiuso sulla dimensione dell'utile privatistico, cieco alla prospettiva del bene collettivo.
Dinanzi a ciò, pur nella complessità, la posizione dominante troppo spesso appare la fuga dalla responsabilità soggettiva. Questa può articolarsi in due direzioni: la fuga di chi vuole “emigrare” da una realtà che soffoca, umilia, mortifica energie, intelligenze e aspirazioni. Ma anche la fuga di chi diventa complice, adattandosi a questo inferno quotidiano - come direbbe Calvino - fino a non vederlo più.
Ma quanto riflettiamo sulle conseguenze delle nostre fughe? Queste, infatti, hanno ricadute significative sul contesto. Da una parte, coloro che si adattano garantiscono la riproduzione di un sistema volto esclusivamente all'utile personale; il loro obiettivo spesso è quello di assicurare un presente migliore alla propria famiglia ma non si soffermano sui pesanti costi che ricadranno sui figli, costretti ad essere prigionieri di una terra senza sviluppo e senza prospettive. Dall'altra parte, coloro che fuggono sono coloro che rinunziano alla lotta e al progetto. Anche questa fuga mantiene lo status quo e, soprattutto, espone al fallimento, abbandonandoli, coloro che ostinatamente e con coraggio cercano il nuovo. Chi vuole impegnarsi per il cambiamento, infatti, rischia di essere un perdente nella misura in cui rimane isolato, così come chi denunzia il pizzo, per esempio, rischia maggiormente se è solo ad alzare la testa, in mezzo ad un oceano di teste chinate e asservite, impaurite ma anche “irresponsabili” in una prospettiva che non guarda agli interessi di un singolo ma di un’intera collettività. Chi scappa, ugualmente a chi tace, condanna chi alza la testa ad essere bersaglio ma condanna anche tutto un territorio a rimanere servo.
Un popolo impaurito può essere meglio dominato, un popolo spaventato può essere meglio “ordinato”. Quanto più abdichiamo alle nostre responsabilità tanto più saremo ridotti in schiavitù e il cambiamento sarà soltanto strumento retorico nelle mani di un populismo messianico.
In questo contesto le fughe non sono una soluzione. Piuttosto che scappare è necessario prima di tutto realizzare una rivoluzione etica che metta al centro la persona e le sue domande più profonde: prendersi cura dell’insieme del corpo sociale, ridando dignità alle istituzioni democratiche, investirsi nella costruzione di relazioni autentiche, resistere a chi vuole spegnere il sogno di una vita più bella. Solo in questo modo la persona diviene soggetto responsabile.
Perché ciò si realizzi è necessario acquisire la capacità di guardare in prospettiva, oltre l'oggi, leggendo fatti e azioni non alla luce di un precario presente ma di un futuro che giorno dopo giorno costruiamo, di un'utopia che non è ideologia ma società orientata al “bene comune”.
Viktor Frankl nel libro “Uno psicologo nei Lager”, in cui racconta la sua esperienza di ebreo in un campo di concentramento nazista, scrive che la forza di un progetto da realizzare, di una “vocazione personale” a cui rispondere, lo aiutò a superare il non-senso della prigionia permettendogli, diversamente da quanto accadde per altri compagni, di sopravvivere all'orrore.
Questo scatto progettuale è possibile se “abitiamo il mondo”; se decidiamo di esserci nella grande avventura della vita. Abitare è assumere le contraddizioni per trasformarle, permettere che le pieghe del nostro essere siano invase da ciò che sta fuori, non passare accanto ad alcuno senza lasciarsi coinvolgere; in una parola: “patire le cose”. Nessuna conoscenza è data senza una compromissione affettiva. Non possiamo rimanere spettatori indifferenti rispetto a tutto ciò che accade perché la nostra casa è il tempo in cui viviamo. Creando relazioni, tessendo reti, dando continuità ad eventi, daremo senso, luce e significato a questa per nulla scontata quotidianità, e riacquisteremo la capacità di costruire il cambiamento.
Certo non è un percorso semplice, né, tanto meno, unidimensionale. Le trasformazioni devono investire diversi ambiti della vita sociale, politica, economica e culturale. Ma la spinta essenziale, senza la quale difficilmente un vero rinnovamento può realizzarsi, deve venire dalla propria interiorità rinnovata. E' necessario ritrovarci nella profondità di noi stessi per scoprire il senso della vita e, alla luce di questo, imparare a tessere relazioni solidali improntate a fiducia e reciprocità. Solo così ci si sentirà parte di una comunità e si costituirà una cittadinanza basata sulla dignità e sulla coessenzialità di diritti e di doveri.
In questa chiave è possibile dare significatività alla propria storia, dare forma al proprio mondo vitale, ricomporre la frammentazione del reale attraverso l'impegno civico e l'attenzione all'altro. Tutto ciò non è euforia momentanea ma è impegno costante e tensione esistenziale. La storia ha più volte dimostrato la capacità delle persone di generare mutamento quando prendono coscienza delle propria dignità e originalità, e danno vita ad azioni collettive. Solo così l'altro diventa compagno e non rivale. Solo così si realizzano ponti e non confini, progetti condivisi e non solo interessi da difendere, sguardo verso il futuro e non appiattimento sul presente.
Questa rivoluzione antropologica ci permette di dare un nome alle cose e farci uscire dalle paure paralizzanti che spengono il sogno di un mondo più bello. Perché non tentare? Motivati interiormente potremo disegnare un cambiamento possibile, ricordando sempre che la dignità di una persona risiede nella capacità di dare un senso al proprio essere nel mondo.