Public enemy # 1
Il latitante Bernardo Provenzano, capo incontrastato della mafia, con i suoi ''pizzini'' continua a decidere li sorti della Sicilia
In America li chiamano ''public enemy # 1''. Per fare un nome su tutti, Osama bin Laden, latitante fra le montagne al confine fra Afghanistan e Pakistan.
In Sicilia il public enemy # 1 si chiama Bernardo Provenzano, latitante dal 1963 e ritenuto l'attuale signore incontrastato della mafia siciliana.
La "primula rossa", così viene chiamato Provenzano, nonostante sia un uomo costantemente ricercato da ben 41 anni continua a dettare legge, in una Sicilia che non riesce ad alzare la testa dal fango mafioso e che sembra non aver ricevuto alcun insegnamento da tutti quei martiri che hanno tentato di spezzare le catene della criminalità organizzata, che da troppi anni ha soggiogato una popolazione (bisogna purtroppo ammetterlo) troppo debole e priva di volontà.
I "pizzini" di Provenzano continuano a fare il buono e il cattivo tempo pure adesso, in questo preciso istante, mentre pubblichiamo queste parole, e la sua presenza invisibile giorno dopo giorno va facendosi sempre più... presente.
"Non potrà esserci futuro per il nostro territorio - dice Salvino Caputo, presidente dell'associazione "Emanuele Basile" - fino a che Provenzano continuerà a essere latitante e in grado di condizionare con minacce, intimidazioni e complicità politiche e burocratiche le attività economiche del nostro territorio. La geografia degli arrestati dimostra come l'intero territorio della provincia palermitana è controllato da pericolosi esponenti mafiosi in grado di incutere paura e soggezione".
E il vero problema è che "Al capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano si rivolgono ancora in tanti, professionisti, imprenditori e politici, tutti alla ricerca di una protezione o di un favore. Sono questi comportamenti che rafforzano il potere dell'organizzazione mafiosa".
Questo è quanto sostiene il pubblico ministero della Dda di Palermo, Nino Di Matteo.
Il magistrato, che rappresenta l'accusa nel processo sulle "Talpe alla Dda", che vede imputati fra gli altri il presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro, dice: "I colletti bianchi che si rivolgono a Provenzano dovrebbero essere isolati dal loro stesso contesto di appartenenza, dal partito o dall'ordine professionale di riferimento. Ma ciò non avviene". Secondo Di Matteo, "il vero problema della lotta alla mafia resta attorno alla politica, che ha abdicato al ruolo di baluardo contro i boss".
Le denunce degli ultimi tempi, esposte dalle procure e dai magistrati siciliani, danno un quadro estremamente preoccupante della situazione mafiosa in Sicilia, rivelando che i rapporti fra questa e la politica, negli anni si è addirittura rafforzata e che la sfiducia della popolazione nei confronti dello Stato è addirittura aumentata.
Se si manterranno le attuali condizioni la vittoria della mafia sulla società civile sarà schiacciante, ed è per questo che chi si trova a combattere ancora in prima linea, malgrado tutto, in maniera sempre più forte si rivolge direttamente alle comunità, alle piccole istituzioni, alla gente.
E così il magistrato Nino Di Matteo, intervenendo ieri a Bagheria (Pa) alla presentazione del libro "Voglia di mafia" (scritto dai giornalisti del quotidiano "La Repubblica", Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo) ha rivolto un appello agli amministratori pubblici: "Voi siete i primi ad avere il polso degli interessi mafiosi sul territorio. Eppure, oggi, Cosa nostra non sembra costituire una priorità politica per i partiti di governo ma anche per quelli di opposizione. Come sarebbe bello se la politica facesse un passo avanti riappropriandosi delle proprie prerogative nella lotta a Cosa nostra. C'è una sola strada per far questo - ha sostenuto ancora Di Matteo - la strada della rescissione vera di ogni legame con i mafiosi, 'punciuti o non punciuti'. Bisogna avere il coraggio di sbattergli la porta in faccia".