Quella lettera a Scalfaro sul 41 bis
... e quella richiesta del Dap al ministero della Giustizia di revocare il carcere duro per 373 mafiosi
Nel febbraio 1993 i parenti dei detenuti per mafia sottoposti al regime del 41 bis tentarono di fare pesanti pressioni sul presidente della Repubblica del tempo, Oscar Luigi Scalfaro. Lo fecero con una lettera, della quale riconoscevano il tono 'arrogante', che è stata acquisita dai magistrati di Firenze e adesso è stata prodotta dai pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, nel processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati della mancata cattura di Bernardo Provenzano.
La lettera fu seguita da un documento riservato a firma del capo Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Adalberto Capriotti, risalente al 26 giugno '93, e relativo a una proposta di revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi. Una nota di grossa rilevanza in cui il dipartimento avanza al ministero della Giustizia proposte di revoca o riduzione del carcere duro per lanciare "un segnale di distensione".
Carcere milanese di Opera
Come accennato all'inizio, il documento (pubblicato, in forma integrale, all'indirizzo web http://blog.la7.it/intoccabili/?p=67 de "Gli Intoccabili", il nuovo programma di inchiesta di Gianluigi Nuzzi che andrà in onda su La7 dal 29 novembre), era preceduto da una lettera spedita dai familiari dei detenuti al 41 bis (in cui si denunciavano le condizioni drammatiche del regime detentivo), e contenente tre punti. Innanzitutto l'allora capo del Dap Capriotti, che sostituì Nicolò Amato, annuncia al ministro della Giustizia che al novembre scadranno 373 provvedimenti di 41 bis per altrettanti detenuti di "media pericolosità", applicati nel '92 dal Dap su delega del ministro della Giustizia. Nella nota si suggerisce al guardasigilli di farli scadere per dare un segnale "positivo di distensione". Nel secondo punto del documento Capriotti fa un altra proposta: stavolta riferendosi ai 41 bis applicati dal ministro della Giustizia Martelli ai capimafia dopo, la strage di via D'Amelio. Il responsabile del Dap suggerisce di ridurre del 10% i provvedimenti di carcere duro relativi ai mafiosi pericolosi. Al terzo punto Capriotti chiede di far durare sei mesi e non più un anno, come previsto allora, la durata delle eventuali proroghe.
Secondo gli inquirenti, il documento è di straordinaria rilevanza, soprattutto alla luce della finalità indicata dal Dap di lanciare un segnale di distensione a Cosa nostra da parte dello Stato che sembra confermare l'esistenza di quella trattativa tra istituzioni e Cosa nostra che aveva proprio il 41 bis tra i punti all'ordine del giorno. La nota firmata da Capriotti smentisce, inoltre, quanto sostenuto dall'ex guardasigilli Giovanni Conso (nella foto) che, a distanza di pochi mesi dal documento del Dap, non rinnovò oltre 300 provvedimenti di 41 bis ad altrettanti capimafia. Conso, interrogato dai pm nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, aveva sostenuto di avere preso la decisione in totale autonomia, mentre quanto scoperto dai Pm prova l'esistenza di un dibattito istituzionale sul cacere duro.
E' importante - fanno notare gli inquirenti - anche la scansione temporale di alcuni fatti avvenuti nel '93: a febbraio Scalfaro riceve la lettera dai familiari dei detenuti, a marzo c'è il fallito attentato mafioso a Maurizio Costanzo, a giugno arriva la nota del Dap, seguono gli attentati mafiosi di Firenze, Roma e Milano e a novembre Conso non proroga il carcere duro per centinaia di mafiosi.
LA LETTERA - Al Capo dello Stato, con toni pesantissimi dall'inequivocabile sapore di avvertimento, si rivolsero i familiari di alcuni detenuti di mafia che da mesi, nelle supercarceri di Pianosa e dell'Asinara, subivano i rigori del 41 bis.
Che la lettera fosse stata inviata al presidente della Repubblica e per conoscenza anche a diverse altre cariche dello Stato e ad alcuni personaggi come ad esempio Vittorio Sgarbi, era cosa nota da anni. Quello che è inedito è il suo contenuto e soprattutto i toni estremamente minacciosi con i quali i familiari dei detenuti, che non si firmano, si rivolgono a Scalfaro. Circostanza che, letta alla luce delle nuova acquisizioni processuali, potrebbe costituire un prezioso retroscena per spiegare alcuni provvedimenti clamorosi, come la revoca del carcere duro per circa trecento mafiosi che l'allora guardasigilli Conso dice di aver adottato in assoluta solitudine.
Ma ecco come i familiari dei detenuti, dopo aver illustrato a Scalfaro, le "angherie" subite dai loro congiunti, si rivolgono al presidente della Repubblica. "Noi ci permettiamo di farle notare che, continuando di questo passo, di detenuti nei moriranno ma lei non si curi di loro tanto si tratta di carne da macello. Per noi e per loro resta solo la consolazione che un giorno Dio, che ha più potere di lei, sarà giusto nel suo giudizio... lei si è vantato più volte di essere un autentico cristiano. Le consigliamo di vantarsi di meno e di AMARE di più. Non ci firmiamo non per paura, ma per evitare ulteriori pene ai nostri familiari (e poi fanno lezioni di mafia!)... Al momento non crediamo che la volontà dello Stato che lei rappresenta sia così civile nel dare una risposta adeguata. La sfidiamo a smentirci".
Isola di Pianosa
E, in un altro passo, il richiamo alla responsabilità personale del presidente della Repubblica nell'adozione del 41 bis. "Ora, se lei ha dato ordine di uccidere, bene, noi ci tranquillizziamo, se non è così guardi che per noi è sempre il maggior responsabile, il più alto responsabile dell'Italia "civile" che, con molto interesse, ha a cuore i problemi degli animali, i problemi del terzo mondo, del razzismo e dimentica questi problemi insignificanti perché si tratta di detenuti, ovvero di carne da macello".
Che i toni siano volutamente pesanti, gli autori della lettera lo sanno bene e aggiungono: "Concludiamo scusandoci per la forma arrogante con la quale ci siamo presentati distogliendola sicuramente da problemi più gravi e urgenti di questi".
Ascoltato dai pm nei mesi scorsi, l'ex presidente della Repubblica Scalfaro è rimasto sul vago nel ricordare il contenuto e i toni della lettera. Che invece, per i pm di Palermo, è un tassello importante dell'ancora indefinito puzzle della trattativa.
I familiari delle vittime delle stragi: "Chiarire i dubbi sulle trattative tra boss e Stato" - "Dopo aver appreso ieri sera tardi, dalle agenzie e quotidiani on line, della ammissione al Processo di Palermo di una lettera anonima firmata 'familiari dei detenuti' e inviata nel febbraio del 1993 al Presidente della Repubblica e a tanti altri soggetti di grande importanza per il Paese, ci domandiamo se sia stato fatto veramente tutto per arrivare a capire quanto la trattativa fra Stato e mafia sia stata determinante per la morte dei nostri parenti". E' quanto si chiede Giovanna Maggiani Chelli, Presidente dell'Associazione familiari vittime della strage di via Georgofili. "Ovvero se le indagini sui probabili 'mandanti esterni' a Cosa Nostra per le stragi del 1993 siano state veramente fatte a 360 gradi o se qualche documento di vitale importanza per una verità più completa sia rimasto in cassetti polverosi perché ritenuto scomodo, dopo la morte del Magistrato Gabriele Chelazzi - scrive in una nota - Oggi alla luce dei nuovi fatti, le deposizioni di uomini dello Stato al recente Processo Tagliavia per le stragi del 1993, sui passaggi da carcere duro a carcere normale, chiaramente dopo le opportune verifiche, lasciano aperti infiniti dubbi, che crediamo fortemente vadano chiariti per una giustizia più completa nei confronti dei nostri morti e dei nostri feriti".
[Informazioni tratte da ANSA, Lasiciliaweb.it, Corriere del Mezzogiorno, Repubblica/Palermo, Adnkronos/Ign]