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Recuperare la propria importanza. Nelle grandi scelte politiche gli Italiani vogliono l'ultima parola

Non deleghe ma partecipazione nella nuova voglia di esserci degli italiani

27 gennaio 2006

Si può essere d'accordo o meno con Beppe Grillo, si può detestarlo, mettere in discussione ma è sinceramente difficile non essere d'accordo con lui quando chiama i politici ''nostri dipendenti''. Sostanzialmente sono questo i parlamentari che Noi, popolo, eleggiamo affinché si occupino di risolvere i problemi che Noi segnaliamo e a cui Noi diamo un indirizzo di risoluzione scegliendo l'uno o l'altro partito. Sono quelli che mandiamo in giro per il mondo a rappresentarci, e sono quelli che danno voce alle parole che Noi vogliamo dire al mondo.
Sono ''nostri dipendenti'', niente da obbiettare.
 
Però c'è un però, infatti affinché i politici si mettano bene in zucca questo principio, basilare e semplice, dobbiamo essere Noi a costruire la base di partenza, e il lavoro del quale bisogna che ogni singolo Noi si prenda l'onere è quello di sviluppare una coscienza sociale e politica. Per dirla in altre parole: Noi Italiani dobbiamo avere la prima e l'ultima parola sull'operato dei politici. Dobbiamo imparare a chiedere e con fermezza rifiutare quello che non vogliamo.
E sembrerebbe, finalmente, che il proverbiale qualunquismo socio-politico degli italiani negli ultimi anni si stia assottigliando, sostituito da una sempre più rinnovata voglia di esserci. Sembrerebbe così, al meno da quello che risulta da una ricerca Ipsos commissionata dal Forum PA (Pubblica Amministrazione e Governance nelle situazioni di crisi): gli italiani vogliono l'ultima parola e si mostrano stanchi di deleghe e rappresentanze; chiedono di essere coinvolti in prima persona nelle decisioni importanti, quelle per il progresso e per il bene della collettività.
La fiducia nelle istituzioni e nelle forze politiche rischia di crollare a picco e tre cittadini su quattro reclamano il diritto di esprimere la propria opinione. E quella che è stata definita la ''sindrome Tav'': nelle situazioni di conflitto tra interessi della comunità locale e interesse generale gli enti pubblici devo considerare il ruolo della gente comune.

Tale dato di fatto è voluminoso e non può essere ignorato facilmente (le proteste in Val di Susa e quelle per il Ponte sullo Stretto di Messina, ma ancora prima le proteste di Scanzano Jonica) danno il polso dell'importanza basilare della ''gente comune''. Si apre così la strada a una riflessione più ampia e complessa sul futuro delle istituzioni rappresentative.
L'imprescindibile gente comune intervistata, si è immedesimata in una situazione di conflitto, come per esempio la costruzione di un termovalorizzatore di rifiuti nel comune di residenza. Per il 71% degli italiani deve essere la comunità interessata ad avere l'ultima parola, e comunque non si può pretendere di imporre una decisione dall'alto: almeno l'Ente comunale va interpellato.
Come dire, tra la concertazione e il decisionismo è opportuno scegliere la prima soluzione, a patto però, che i problemi si affrontino per tempo, altrimenti verrebbe vanificata l'efficacia della concertazione.
Resiste invece una frangia di intransigenti, quelli che non amano il compromesso: per il 17% degli intervistati le discussioni non portano a nulla, meglio lasciare la decisione ad un solo ente.

Sui progetti di interesse collettivo che generano proteste e condizioni di crisi, a decidere dovrebbero essere i cittadini della zona interessata per il 34% degli italiani. Seguono lo Stato e i ministeri, i comuni, le province e le regioni, e solo in ultimo l'Unione Europea. Forse un segno che le ''novità'' importate come adeguamento alle direttive europee o ai canoni dell'Europa suonano come una giustificazione. La prospettiva si mantiene invariata quando si considerano le istituzioni giudicate in grado di gestire al meglio i momenti di tensione, con i comuni e lo Stato che raccolgono il 23% dei consensi, seguiti dall'UE e le istituzioni locali.
L'opinione pubblica si dimostra poi agguerrita quando un'eventuale ''Grande Opera'' da costruire potrebbe avere un impatto ambientale molto forte. In un caso del genere, comunque, quasi la metà degli italiani preferisce che i lavori si fermino: diventa indispensabile rivedere il progetto, anche se comporta costi aggiunti per l'intera collettività. Sempre meglio che un'opera sbagliata.
Per il 29% invece, sarebbe preferibile andare avanti, proseguire nei lavori, e provvedere a compensare adeguatamente i cittadini interessati. Salvo poi, quando si tratta di mettere mano al portafoglio, affrettarsi a dire no ad una possibile tassa di compensazione per le popolazioni sfavorite dall'opera.
La solita minoranza (13%) insiste: si deve andare avanti a tutti i costi, è di gran lunga più importante favorire il bene comune che gli interessi di una ristretta collettività.

Ma questi numeri, dunque, ci dicono forse che si va verso una delegittimazione delle Istituzioni?
Non esattamente. Più che altro è come se la popolazione adesso senta l'esigenza di prendere le redini della situazione, coscienti del fatto che a fare ''imbizzarrire il cavallo'' è stato proprio quel qualunquismo di cui parlavamo all'inizio. Magari si pecca un po' di presunzione (le pubbliche amministrazioni sono incompetenti, sembrano dire gli italiani (51%), i nostri rappresentanti inadeguati, e prima di agire farebbero bene ad ascoltarci), ma che le comunità vogliano riappropriarsi della propria ''basilarità''  è fin troppo importante.

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27 gennaio 2006
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