Ricordando il ''vecchio sporcaccione'' della letteratura americana, Charles Bukowski
Ricorre oggi il 10° anniversario dalla morte del terribile, poetico, cinico, grandissimo Buk
Non sono uno che impara, sono uno che evita.
Non ho voglia di imparare, mi sento perfettamente normale nel mio mondo pazzo; non voglio diventare come gli altri.''
C'è tutto Bukowski in questa sua frase, tutto il suo disincanto e la sua indolenza contro un mondo che fa' a meno di tutti, e dove tutti potrebbero essere utili e sicuramente nessuno è indispensabile.
Il vecchio caro Hank, spregevole per molti, carissimo per chi lo ha conosciuto di persona, che se ne andava dallo spregevole mondo esattamente dieci anni fa, sconfitto all’ultimo dalla leucemia.
Grandissimo scrittore, per molti versi decisivo per la tecnica della "short story", importante nella letteratura americana tanto quanto Hemingway, Fante, Miller, Saroyan, Faulkner, meritevole di aver messo a disposizione della scrittura un elemento che mai nessuno prima di lui aveva avuto il coraggio, o forse l’interesse, di mettere fortemente in gioco: se stesso.
L’articolo che riportiamo in parte di seguito è stato scritto da Fernanda Pivano (una persona che il vecchio Hank l’ha conosciuto) per il Corriere della Sera, l'11 marzo 1994, due giorni dopo la morte di Charles Bukowski.
E' morto Charles-Henry-Hank Bukowski, sposato con la dolcissima Linda Lee Beighale, padre di una figlia ormai adulta avuta dalla prima moglie: è morto di leucemia o di polmonite o delle orribili cose di cui si muore a conferma che la vita non è così bella come cercavamo di fargli credere, circondato dai fiori coltivati da Linda e dai tre gatti raccolti qua e là perché non morissero di fame.
Ora arriveranno le cronache, i soliti pettegolezzi, li dovremo anche raccontare ma c'è una cosa che vorrei dire per prima: che Bukowski era un grandissimo scrittore, uno scrittore nato, un narratore della levature forse di un Hemingway, certo di Norman Mailer (e con l'ambizione di entrambi), uno scrittore nato che si metteva lì, con gli occhi socchiusi da animale braccato e quel sorriso alla Mickey Rourke, a rispondere sottovoce, lentamente a una domanda finchè la risposta non prendeva forma e diventava intensa.
Così, presto, ci accorgevamo di ascoltare un racconto, di quelli che poteva benissimo pubblicare, intensi, disperati come tutto quello che scriveva, senza futuro, sempre intrisi di dolore, senza speranza e senza sorriso: solo in compagnia del vuoto di chi ha conosciuto la sabbia portata dal vento tra le immondizie e gli scarafaggi su pareti senza colore. […]
[…] Voleva essere chiamato Hank; Henry non lo voleva perché glielo avevano dato i genitori, Charles era troppo solenne e poi quello preferito dagli editori. Questi erano Barbara e John Martin della Black Sparrow di Los Angeles, una piccolissima casa editrice di Santa Barbara nata nel 1966 quando Martin, allora capo di una ditta di forniture per uffici, vendette la sua collezione di "prime edizioni" e pubblicò il primo libro di un bevitore famoso, di quelli che bevono nei bar dei marinai, si azzuffano con tutti e finiscono a bere da soli distesi sul pavimento: era poesia esplicita e la prosa ricordava lo stile di Henry Miller. Martin gli offrì 100 dollari al mese perché lasciasse il suo lavoro di fattorino alle poste e lavorasse soltanto a un romanzo. Bukowski lo ascoltò e abbandonò l'impiego: alla fine di un gennaio telefonò dicendo che il romanzo era finito.
Con quella telefonata iniziò la sua carrira di scrittore e anche la fortuna dell'editore. John Martin così sintetizzò il loro incontro: "Il signor Rolls incontra il signor Royce". Intanto Bukowski si conquistò un pubblico facendo uscire qua e là frammenti e racconti sulle riviste che allora si chiamavano underground. La collaborazione più regolare fu quella con Open city, dopo quella al Los e al Los Angeles Free Press; su quel giornale tenne una rubrica chiamata Note di un vecchio sporcaccione che segnò il suo ingresso (1969) nella galleria di letterati della casa editrice di Lawrence Ferlinghetti, la City Lights Books. Il libro fu accolto con disprezzo dalla critica dell'establishment ma Bukowski aveva ormai un suo pubblico che lo andava ad ascoltare ai readings di poesia e non cercava soltanto in lui il "poeta" ma il "poeta maledetto". […]
[…] Nel 1980, quando facemmo un'intervista di 150 pagine, la sua adolescenza, la sua infanzia, la sua giovinezza, risultarono con una chiarezza ormai priva di dubbi; e intanto Bukowski continuava a regalarci storie su storie e due film dei quali chiacchieravamo nella sua stanza di soggiorno […]. Mi faceva cucinare da Linda un minuscolo pesce arrosto e beveva a tavola acqua di Perrier al sapore di cilegia. Poi ritornava a bere nel suo studio del primo piano dove da grande ubriaco si metteva a correggere con minuzia da stilista le pagine scritte la notte precedente.
Quando uscivo mi baciava la mano come uno studente inglese dell'800 e mi porgeva una rosa della sua siepe, lì sulla porta d'ingresso. Un giornalista italiano non ci credette; gli chiese se era vero. Bukowski insaccò il collo da King Kong come faceva quando gli giravano le scatole e disse: "Certo che è vero. Viene qui questa gentile signora che ha passato la vita ad aiutare i nostri libri in Italia: cosa volete che faccia, che la stupri?".
Ora
me ne sto qui seduto al 2° piano
ingobbito con un pigiama giallo
addosso
fingendo ancora di essere
uno scrittore.
una maledetta sfacciataggine
a 71 anni
con le cellule celebrali divorate
dalla vita.
file di libri
dietro me,
mi gratto i capelli
radi
e cerco la parola giusta.
tutti loro presto avranno
l'opportunità
di festeggiare.
"terribilmente sopravvalutato..."
"volgare""un' aberrazione"
le mie mani affondano dentro
la tastiera
del mio
Macintosh,
è il solito vecchio
giochetto
che mi ha trascinato via
dalle strade
e dalle panchine nel parco
la stessa semplice
cosa
che ho appreso in quelle
stanze da quattro soldi,
e che non posso dimenticare
seduto qui
ingobbito al 2° piano
con un pigiama giallo
addosso
ancora a fingere di essere
uno scrittore
gli dei sono tristi
gli dei sono tristi
gli dei sono tristi.
Charles Bukowski