Sulla strage di via D'Amelio ancora troppe domande senza risposta. Lettera aperta di Salvatore Borsellino
Gli inquietanti misteri che hanno avvolto la strage di via D'Amelio fin dal primo momento sono ancora tanti. Ne è convinto il fratello del magistrato, Salvatore Borsellino, che con una lettera aperta spedita nei giorni scorsi ha chiesto di avere almeno alcune risposte.
''Chiedo al procuratore Pietro Giammanco - scrive - allontanato da Palermo dopo l'assassinio di Paolo perché non abbia disposto la bonifica e la zona di rimozione per via D'Amelio. Eppure nella stessa via, al n. 68 era stato da poco scoperto un covo dei Madonia e, a parte il pericolo oggettivo per l'incolumità di Paolo Borsellino, le segnalazioni di pericolo reale che pervenivano i quei giorni erano tali da far confidare da Paolo a Pippo Tricoli lo stesso 19 luglio: 'è arrivato in città il carico di tritolo per me'''.
La stessa domanda Salvatore Borsellino la pone all'allora prefetto di Palermo Mario Jovine.
''Chiedo alla Procura di Caltanissetta - prosegue - e in particolare al gip Giovanbattista Tona, il motivo dell'archiviazione delle indagini relative alla pista del Castello Utveggio: eppure proprio da questo luogo partirono, subito dopo l'attentato, delle telefonate dal cellulare clonato di Borsellino a quello del funzionario del Sisde Bruno Contrada. Chiedo alla stessa Procura di Caltanissetta, e sempre allo stesso gip, i motivi dell'archiviazione dell'inchiesta relativa ai mandanti occulti delle stragi''. Il fratello del magistrato chiede alla procura nissena ''di non archiviare, se non lo ha già fatto, le indagini relative alla sparizione dell'agenda rossa di Paolo e di chiarire il coinvolgimento di tutte le persone, dei servizi e non, in essa coinvolte''.
E ha chiamato in causa anche l'attuale vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino: ''Chiedo all'ex senatore Nicola Mancino, del quale ricordo negli anni immediatamente successivi al 1992 una lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo, di sforzare la memoria per raccontarci di che cosa si parlò nell'incontro con Paolo nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte. O spiegarci perché, dopo avere telefonato a mio fratello per incontrarlo mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, a sole 48 ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo della Polizia Parisi e il funzionario del Sisde Contrada'', continua Salvatore Borsellino. ''Da quell'incontro - aggiunge - Paolo uscì sconvolto tanto, come raccontò lo stesso Mutolo, da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente''.
Per Salvatore Borsellino solo Mancino può riferire di quel colloquio perché altrimenti ''a causa della sparizione dell'agenda rossa di Paolo, non saremo mai in grado di saperlo. E in quel colloquio si trova sicuramente la chiave dalla sua morte e della strage di Via D'Amelio''.
''Non ho accettato l'indennizzo che lo Stato mi avrebbe dato, dietro mia domanda, per la morte di Paolo - continua -. Si trattava, se non ricordo male, di 50 milioni di lire''. ''Sarebbe mio diritto 'pretendere' dallo Stato - dice - di conoscere la verità sull'assassinio di Paolo, ma da 'questo' Stato, da cui non ho accettato 'l'indennizzo' che pretendeva di offrirmi quale fratello di Paolo, indennizzo che andrebbe semmai offerto a tutti i giovani siciliani e italiani per quello che gli è stato tolto, sono sicuro che non otterrò altro che silenzi''.
''Di quante altre stragi, di quanti altri morti avremo ancora bisogno perché da parte dello Stato ci sia finalmente quella reazione decisa e soprattutto duratura, come finora non è mai stata, che porti alla sconfitta delle criminalità mafiosa e soprattutto dei poteri, sempre meno occulti, a essa legati?''.
''Di quante altre stragi avremo bisogno - aggiunge - perché venga finalmente rotto quel patto scellerato di non belligeranza che, come disse il giudice Di Lello il 20 Luglio del 1992, pezzi dello Stato hanno da decenni stretto con la mafia e che ha permesso e continua a permettere non solo la passata decennale latitanza di boss famosi come Riina e Provenzano ma la latitanza e l'impunità di decine di 'capi mandamento' che sono i veri padroni sia di Palermo che delle altre città della Sicilia?''.
Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino ha così replicato: ''A quindici anni dalla strage mafiosa di via D'Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, non posso che ripetere il mio sdegno e il mio cordoglio per l'atto criminale che ha colpito insieme a un magistrato, che si era distinto in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata, anche i servitori dello Stato addetti alla sua sicurezza. Quanto alle domande che oggi per la prima volta mi rivolge il fratello del compianto dottor Borsellino - continua - non posso che confermare ciò che già in due occasioni ho testimoniato davanti alla magistratura, e cioè che il giorno del mio insediamento al Viminale come ministro dell'Interno, il primo luglio 1992, ho salutato e sono stato complimentato da numerosissime autorità e persone, molte da me conosciute, molte incontrate per la prima volta in quella occasione. Non posso escludere che tra questi vi fosse anche il dottor Paolo Borsellino, che comunque non aveva chiesto a me un incontro formale, né lo aveva ottenuto''. ''E' vero - conclude Mancino - invece che il dottor Borsellino si incontrò con il Prefetto Parisi, allora capo della Polizia. Del contenuto di questo colloquio, io non sono stato portato a conoscenza. Ho commemorato a Palermo e in altre località il compianto dottor Borsellino e, nei diversi ruoli istituzionali che ho ricoperto, ho sempre intrattenuto buoni rapporti con la vedova e i familiari che ho avuto l'onore di incontrare. Pur comprendendo l'amarezza del signor Salvatore Borsellino, devo ulteriormente precisare che né allora né oggi avevo ed ho alcuna ragione per non confermare un incontro che non c'è stato. Perché mai proprio io, che ho combattuto la mafia e ho proposto leggi per ridimensionarne la presenza, avrei dovuto tacere?''.
''Se è vero che le dichiarazioni di un pentito come Gaspare Mutolo - ha controreplicato Salvatore Borsellino - non possano assumere da solo valore probatorio se non suffragate da solidi riscontri è anche vero che di riscontro ne esiste almeno uno, e incontrovertibile, dato che è siglato dallo stesso Paolo Borsellino. In merito alla persistenza delle lacune di memoria del senatore Mancino sull'incontro con Paolo Borsellino del primo luglio 1992 - aggiunge in una nota -, evidenti dalla sua risposta alle mie dichiarazioni e preoccupanti per chi è stato chiamato alla vicepresidenza del Csm, ritengo mio dovere fargli notare nella sua seconda agenda, quella grigia in possesso dei suoi familiari, che, essendo stata lasciata a casa da Paolo il 19 luglio non ha potuto essere sottratta come quella rossa, mio fratello ha annotato: '1 Luglio ore 19:30: Mancino'. In quanto alla credibilità dello stesso Mutolo - aggiunge Salvatore Borsellino -, il quale riferisce la frase di Paolo durante l'interrogatorio: 'devo smettere perché mi ha chiamato il ministro, manco mezzora e torno...', devo ricordare al senatore Mancino che è proprio grazie alle dichiarazioni di Gaspare Mutolo che il dottor Bruno Contrada, funzionario del Sisde, ha potuto essere condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione. Inoltre - conclude Salvatore Borsellino - lo stesso Vittorio Aliquò (all'epoca procuratore aggiunto ndr) ha dichiarato di aver accompagnato Paolo fino alla soglia dell'ufficio di Mancino, ed è impossibile credere che lo stesso non possa ricordare di avere incontrato non un qualsiasi magistrato tra i tanti che quel giorno 'venivano a complimentarsi per la mia nomina' ma un giudice ad estremo rischio di vita che in quei giorni era al centro dell'attenzione di tutti gli italiani''.
- Ci fu un patto con Cosa nostra. Paolo ucciso perché contrario (il manifesto)