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Sulle tracce dell'uomo-ombra

Intervista a Marco Amenta di Elisa Speretta (www.narcomafie.it)

22 marzo 2006
Questa è la storia di un uomo che da 42 anni vive in solitudine. Pochi conoscono la sua voce o il suo volto. Si sposta di campagna in campagna, di casolare in casolare; con sé porta solo qualche indumento e una macchina per scrivere. Non ha mai posseduto un cellulare; i suoi unici contatti con il mondo sono poche frasi su pezzetti di carta che passando di mano in mano attraversano - lentamente, ma inesorabilmente - città, mari, oceani.
Una vita che sembra una sceneggiatura, e infatti è pronto un film su di lui. Meglio, un documentario, e poiché si parla di realtà e non di fiction, vale la pena chiarire subito che lui, nella storia, è il cattivo.
Sì, perché il misterioso uomo-ombra non è l'ultimo cavaliere errante né un filosofo eremita, ma un feroce assassino, il capo supremo di Cosa Nostra: Bernardo Provenzano.
A partire dalla guerra di mafia del 1969 con cui, dopo 5 mila morti, salì al potere con Totò Riina, la Primula rossa ha al suo attivo decine di esecuzioni, attentati, intimidazioni, ma il suo curriculum parla soprattutto di una folgorante carriera da killer a uomo d'affari e poi a stratega, posizione che gli consente di non sporcarsi più le mani, e di manovrare i fili di un impero fatto di infiltrazioni nei cantieri e nei palazzi istituzionali.
Di lui si parla solo con fugaci pillole di folclore che rischiano di farlo apparire l'Arsenio Lupin siciliano, come i suoi presunti ricoveri in Francia o le recenti affissioni ''wanted'' a Bagheria, in perfetto stile spaghetti-western, ma di lui ancora non c'è traccia: se, dal 1963, è riuscito a non farsi prendere stando su un'isola, l'ex contadino semianalfabeta deve avere potenti frecce al suo arco.
Quali?
È per rispondere a questa domanda che Marco Amenta, giovane regista palermitano, ha girato ''Il fantasma di Corleone'', film - prodotto da Eurofilm con vari partner europei, e già venduto a diverse tv estere - che l'ha impegnato per mesi tra Trapani, Palermo ed Agrigento, nelle campagne disseminate di ''covi caldi'', sorvegliati da microspie 24 ore su 24, e nei Palazzi di Giustizia, leggendo dossier riservati dei servizi segreti e raccogliendo preziose e inedite testimonianze.
Un po' spy-story e un po' inchiesta scoop: ottimi ingredienti per decretare successo di pubblico e critica. Eppure, forse proprio perché il contenuto scotta, l'uscita sugli schermi del documentario sta incontrando parecchi ostacoli, e la versione ad oggi presentata in Festival italiani ed internazionali è un work in progress, un breve docu-fiction che anticipa solo i contenuti della scioccante versione ufficiale, ma non ne rispecchia il crescendo di ritmo, rivelazioni e sgomento, con tagli che hanno il gusto amaro della censura, del compromesso.
Marco Amenta, però, è determinato a non lasciare intentata nessuna strada per ottenere i nulla osta istituzionali e un circuito interessato alla distribuzione del suo film. Dopo aver visto anche la bellissima versione ''incriminata'', non possiamo fare altro che augurargli di farcela: parlare di mafia rifiutando ogni orpello romanzesco è una scelta coraggiosa.

Marco, hai lasciato Palermo, tua città natale, subito dopo le stragi del '92-'93. Perché dopo 10 anni sei tornato in Sicilia a parlare di Cosa Nostra?
Per cercare di capirne di più. Oggi della mafia non si parla quasi mai, sembra che sia sparita. In realtà dovrebbe essere chiaro che il mistero ''del boss dei boss'', latitante da ben 42 anni, è solo la punta di un iceberg; significa che Cosa Nostra è più viva che mai. All’inizio del film il mio personaggio dice: «Dopo 10 anni torno in Sicilia, terra oscura e piena di misteri, e nulla sembra cambiato».

Il personaggio che interpreti combacia perfettamente con la tua biografia. Qual è il livello di contaminazione tra documentario e fiction?
La scelta della forma cinematografica da utilizzare è stata lunga e difficoltosa. Il mio progetto è nato come un documentario classico, basato sul materiale a disposizione, e avevo filmato, con tutte le dovute autorizzazioni, le testimonianze di alcuni investigatori. Poi però lo Stato maggiore di polizia ha ritrattato e ci ha negato la messa in onda, soprattutto per Giuseppe Linares, capo della squadra mobile di Trapani, che è proprio l’inseguitore di Provenzano.
Per superare l’ostacolo abbiamo inserito il personaggio del “cacciatore”, e poi, perché la trama del docu-fiction reggesse, altri due, tra cui il mio del regista che torna in Sicilia per seguire quest’inchiesta.
L’alternanza di testimoni reali e attori era molto interessante, ma poco convincente: i personaggi risultavano scarsamente credibili, mancavano di contesto, di sfaccettature. Poi, per fortuna, abbiamo avuto una prima autorizzazione, di Linares, e quindi abbiamo tagliato quasi tutta la fiction e rimontato una versione, spero definitiva, di documentario puro. Dover buttare il lavoro fatto è stato un grande sforzo, anche economico, però andava fatto perché la forza della realtà supera la finzione.

Tagliare i contributi di Linares snaturerebbe il film?
Sì, è il vero protagonista. Al contrario di tanti investigatori più anziani con cui ho parlato, delusi dalle sconfitte, lui è pieno di forza e di speranza, contagiosa. Prima di ogni operazione raduna i suoi uomini e dice: «Mostrate ai mafiosi la luce abbagliante di cui siamo fatti».
Con lui si è creato un bel rapporto, mi ha anche permesso di filmare una maxiretata: 35 latitanti in una notte. È stata un’esperienza unica seguire in diretta le operazioni e vederlo in azione, quando squillava il cellulare e chiedeva «Tutto a posto? Positivo?» e poi depennava un nome per volta da una lista lunghissima, con soddisfazione, perché, come dice lui: «C’è un grande sentimento di vittoria in questa caccia».
Una figura quasi epica…
In realtà è un uomo molto concreto e senza smanie da primadonna; non crede negli individui-investigatori, ma negli apparati investigativi, nella squadra-Stato. E sa che la fiducia nel gruppo più che nel singolo vale anche per Cosa Nostra: se un boss cade viene subito sostituito, perché ciò che va tutelato è il “progetto di lavoro”. Per questo studia l’avversario con uno sguardo “antropologico”: le regole del branco, i sistemi gerarchici, le tecniche per il procacciamento del cibo… E visto che i nemici non mettono più bombe e sono diventati “invisibili”, vanno combattuti con poliziotti altrettanto invisibili.
Una vita dura, la sua: sotto scorta costante dal ’96, minacciato… Ma non perde il suo humour agrodolce neanche quando racconta che persino in viaggio di nozze, a 4 mila km dalla Sicilia, ha ricevuto una minacciosa telefonata anonima, o quando dice in conferenza stampa che gli uomini della sua squadra, soprannominata “la compagnia dell’anello”, «non sono hobbit, sono anche abbastanza belli».
Linares è giovane, ma è l’uomo che ha arrestato il maggior numero di latitanti negli ultimi 10 anni, tra cui i numeri 3 e 4 di Cosa Nostra, Vincenzo Virga e Benedetto Spera, ed è andato molto vicino alla cattura di Provenzano.
Molto vicino, ma non ancora abbastanza…
Infatti. Questo film racconta un viaggio geografico, un po’ road movie, attraverso i luoghi in cui Provenzano è stato e incontrando vari personaggi che parlano di lui, ma soprattutto è un viaggio alla ricerca di una risposta: com’è possibile che un uomo possa vivere nascosto su un’isola per 40 anni, braccato da centinaia di poliziotti e continui ad essere il capo supremo di Cosa Nostra?

Che risposta hai trovato?
Nessuna risposta definitiva, ma molti spunti di riflessione ascoltando il racconto dei tanti, troppi fatti strani che circondano la vita di Provenzano, come le misteriose catture di Liggio e poi di Riina, forse venduti direttamente da lui che invece è stato sfiorato infinite volte e infinite volte l’ha fatta franca. O gli inspiegabili allontanamenti di investigatori che si erano spinti molto in là nelle indagini, i sospetti di talpe, di dirigenti e politici coinvolti…
Il colonnello del Ros Michele Riccio, ad esempio, racconta nel film la trappola preparata per mesi, con il pentito Luigi Ilardo, per Provenzano. Ma quando era vicinissimo a prenderlo è stato bloccato da ordini superiori… per i suoi commenti, molto amari, rimando al film. Allo stesso modo si pronunciano anche Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte (procuratori aggiunti di Palermo, nda.): non può essere solo la mancanza di perizia delle forze dell’ordine, Provenzano è protetto. Gode di complicità insospettabili e potenti. Da parte di chi? E come? Non so ancora se potremo inserire nel film alcune dichiarazioni sui rapporti tra politica e mafia, perché molti processi sono in corso, come quello a Dell’Utri, c’è il pentito Nino Giuffrè che sta parlando… Le risposte le avremo dalla cronaca, il film tenta di aprire delle piste.

Dopo questo lungo lavoro di documentazione, che idea ti sei fatto di lui?
Mi chiedo cosa l’abbia spinto a scegliere una vita da braccato, isolato da tutto e tutti, lontano dalla famiglia, senza godersi l’enorme impero economico che ha costruito. E mi chiedo come possa, con tutto il tempo che ha a disposizione, non ripensare a cosa è stata la sua vita e che senso ha avuto. Probabilmente la risposta sta in un vecchio proverbio siciliano: comandare è meglio che fottere. Me l’ha confermato anche lo psicologo della mafia Girolamo Loverso: Provenzano è parte di un sistema in cui crede ciecamente, la sua è una missione, quasi una religione, è convinto di essere il generale di un esercito che combatte per il bene, come dimostrano i pizzini ritrovati («questo ragazzo non ha come noi esperienza della vita malvagia, quindi insegnagli ad essere corretto, calmo, coerente e a valutare la verità prima di prendere ogni decisione»).
Sarebbe facile attribuire queste parole a un personaggio eroico, e riconoscere a Provenzano dei tratti “romantici”. È proprio per non correre questo rischio che ho deciso nel film di dare poco spazio al suo lato umano; non bisogna mai dimenticare che stiamo parlando di un genio del male, un maestro di mistificazione.


Hai detto che Provenzano è parte del sistema-mafia, che accetta ciecamente. Però è riuscito a dare un’impronta molto personale a Cosa Nostra, a imporre le sue strategie. In un certo senso ha cambiato le regole del gioco...
Lui è tornato a quella che era la mafia inizialmente. Riina e Bagarella avevano cambiato i Corleonesi, hanno tentato la via delle stragi, degli omicidi eccellenti, mentre la vecchia mafia, che è quella che lui ha riportato in auge, è quella del “calati giunco che passa la piena”: dialogare, corrompere, non fare atti eclatanti per non mettersi contro l’opinione pubblica. Effettivamente lui è stato abile in questi anni a riportare il silenzio, soprattutto della stampa.
Ma così si fa il gioco della mafia: parlarne è fondamentale perché, tenendo alta l’attenzione, la si fa uscire allo scoperto. La mediazione è più pericolosa delle stragi perché significa che c’è una pax mafiosa che detiene il potere completamente, tanto che non c’è bisogno di uccidere.

Secondo te cosa succederà quando verrà preso, se verrà preso, Provenzano?
Come si dice nel film, il giorno del suo arresto vorremo credere che Cosa Nostra sarà stata sconfitta, ma la mafia sopravviverà a Provenzano. Piuttosto bisognerà domandarsi se l’arresto non sarà stato possibile grazie a un mutamento di rotta nella strategia della Cupola, e qual è. Anche se penso che i suoi successori, che attualmente vedo in Salvatore Lo Piccolo e Matteo Messina Denaro, sono sostanzialmente sulla stessa linea. E comunque ormai è chiaro ai “vertici” che le stragi non convengono. Meglio la sommersione, l’infiltrazione nella politica, nell’economia, negli appalti pubblici. Meglio continuare a convivere con lo Stato e non contro lo Stato. Ovviamente, finché le cose vanno bene. Oggi, come è accennato nel film, la mafia non è più disposta ad accettare il carcere duro, e a breve potrebbe esserci il rischio di una nuova guerra aperta.
La domanda con cui si chiude il film è forse la più drammatica: quanti uomini devono ancora morire, prima che lo Stato decida di andare fino in fondo nella lotta alla mafia?

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22 marzo 2006
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