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Testimoniando sulla strage di Natale del 1984

Il pentito Giovanni Brusca accusa Calò e Riina. Poi rivela: "Falcone doveva morire nel 1983"

14 gennaio 2015

Doveva essere una "semplice" testimonianza sulla strage del Natale di 30 anni fa, quella del treno rapido 904; in realtà la deposizione di Giovanni Brusca, pentito della cupola di Cosa Nostra dal 1996, ha toccato ancora una volta molti dei misteri di mafia, tra attentati, depistaggi e "aggiustamenti di processi".
"La decisione di uccidere il dottor Giovanni Falcone fu presa dopo l'attentato al giudice Rocco Chinnici, avvenuto il 29 luglio 1983. Ci furono vari tentativi, poi andati a vuoto, e quindi diversi rinvii per motivi interni a Cosa Nostra. Poi si arrivò all'attentato del 23 maggio 1992, in cui Falcone fu ucciso", ha raccontato tra l'altro Brusca, interrogato come teste, in videoconferenza dal carcere dove si trova rinchiuso, dal pubblico ministero Angela Pietroiusti.


L'arresto di Totò Riina

Il processo davanti alla Corte d'Assise di Firenze, che vede come unico imputato Toto Riina, accusato di esserne il mandante, era ieri alla terza udienza. Per questo processo sono stati già condannati in via definitiva Pippo Calò, Guido Cercola, Franco Di Agostino e l'artificiere Friedrich Scaudinn.
Sia l'attentato a Chinnici che quello preparato per Falcone, ha ricordato Brusca, facevano parte della strategia di Cosa Nostra "per fermare l'attacco giudiziario" dei magistrati del pool antimafia di Palermo impegnati nell'istruzione del maxiprocesso che avrebbe portato alla fine del settembre del 1984 a 366 ordini di custodia cautelare, scaturiti anche da dichiarazioni di pentiti, in primo luogo di Tommaso Buscetta.


Boris Giuliano, Giovanni Falcone e Rocco Chinnici

La strage del treno rapido 904 del 23 dicembre 1984 fu la prima "reazione" di Cosa Nostra agli arresti ordinati da Falcone e dal pool palermitano poco più di due mesi prima. Brusca ha quindi parlato delle varie strategie adottate dagli uomini agli ordini di Riina per neutralizzare l'opera della magistratura, tra l'altro "cercando di addomesticare i giudici" e anche i politici, "per contrastare le ipotesi accusatorie", magari tentando anche di "aggiustare i processi", per evitare gli ergastoli, magari anche inquinando le prove per ostacolare "il normale iter processuale".
In questa strategia trovò spazio anche l'attentato del 2 aprile 1985 al giudice Carlo Palermo con un'auto carica di tritolo. "E c'era una strategia offensiva di carattere violento - ha concluso Brusca - Si andava per le vie criminali, uccidendo i magistrati e chi non si metteva a disposizione".


Pippo Calò

Brusca ha accusato direttamente Pippo Calò, il quale, ha riferito il pentito, gli chiese di distruggere le mine anticarro, perché quella poteva diventare "una prova che avrebbe potuto incastrarlo. Calò mi chiese espressamente di distruggere quegli elementi di prova a suo carico".
"Di questa strage so solo quello che mi disse Calò durante le udienze del maxiprocesso a Palermo istruito da Giovanni Falcone, tra il 1986 e il 1987", ha aggiunto Brusca, anche quando a interrogarlo è stato l'avvocato Luca Cianferoni, difensore dell'imputato Totò Riina, collegato anche lui in videoconferenza dal carcere di Parma. Riina durante l'udienza di ieri non ha rilasciato dichiarazioni spontanee. Da parte sua il legale, ha commentato, al termine dell'udienza, che Brusca "non sa niente" della strage del 23 dicembre 1984.
Brusca ha riferito anche che Calò gli chiese di distruggere l'esplosivo custodito a Roma da Calò stesso e in un nascondiglio a disposizione dei boss mafiosi a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti, da dove fu prelevato il materiale utilizzato per la strage del Natale 1984. Quel materiale faceva parte della stessa "partita" nascosta in contrada Giambascio di San Giuseppe Jato, di cui era custode lo stesso Brusca. "Ogni mandamento aveva il suo piccolo arsenale. Queste armi provenivano da varie parti, o dalla zona di Palermo o tramite la Svizzera, in parte dalla Thailandia col traffico di droga, allora si parlava di eroina". Si trattava di "mine anticarro, bazooka, mitragliatori, munizioni" arrivate con partita di droga.

Brusca riferì le parole di Calò, apprese nel corso delle udienze del maxiprocesso, direttamente a Riina, che all'epoca era latitante e che lui incontrava regolarmente a Palermo. "'Me la sbrigo io, digli che stia tranquillo', mi disse Riina", ha specificato Brusca, sottolineando che era sempre 'il capo dei capi' ad ordinare come si dovesse utilizzare l'esplosivo a disposizione della cupola mafiosa.
Durante l'esame da parte del pm Angela Pietroiusti, Brusca ha ricostruito la sua affiliazione in Cosa Nostra, i suoi contatti con i boss e il suo ruolo nell'organizzazione mafiosa, definendo tra l'altro "Riina come un secondo padre". [Adnkronos]

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14 gennaio 2015
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