This Must Be the Place
Sorrentino tiene alta la bandiera del Grande Cinema Italiano, anche con un road movie americano e con Sean Penn come protagonista
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THIS MUST BE THE PLACE
di Paolo Sorrentino
Cheyenne, ricco e annoiato ex divo del rock che conduce una vita più che benestante a Dublino, alla morte del padre torna a New York. I due hanno perso i contatti da anni ma, dopo aver letto i diari paterni, Cheyenne decide di continuare la ricerca di un criminale nazista che suo padre ha ossessivamente tentato di trovare per oltre trent'anni. Sicuro del fatto che quell'uomo si sia rifugiato come molti altri negli Stati Uniti, Cheyenne, accompagnato da un'inesorabile lentezza e da nessuna dote da investigatore, inizia il suo viaggio alla ricerca di un tedesco novantenne, probabilmente morto di vecchiaia...
Anno 2011
Nazione Italia, Francia, Irlanda
Produzione Nicola Giuliano, Andrea Occhipinti, Francesca Cima, Ed Guiney, Andrew Lowe, Laurent e Michèle Pétin per Indigo Film, Lucky Red, Medusa Film, ARP, France 2 Cinema, Element Pictures, Bord Scannàn na Héireann, The Irish Film Board
Distribuzione Medusa
Durata 120'
Regia Paolo Sorrentino
Sceneggiatura Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia Luca Bigazzi
Con Sean Penn, Judd Hirsch, Eve Hewson, Kerry Condon, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten, David Byrne
Musiche David Byrne, Will Oldham (testi delle canzoni)
Genere Drammatico
In collaborazione con Filmtrailer.com
La critica
"This must be the place, ovvero il trucco e l'anima. A parte il film di Malick, oltre ogni categoria, è di Paolo Sorrentino il film più sbalorditivo di Cannes 2011. Qui tutti i grandi registi hanno rifatto se stessi, alcuni molto bene, come Kaurismäki e i fratelli Dardenne. Altri maluccio o malissimo, come Almodovar e Lars von Trier. Soltanto gli italiani hanno rischiato nuove strade e Sorrentino ancor più a fondo e senza riserve rispetto al Moretti di Habemus Papam. Non si tratta soltanto della scelta di girare una storia originale in inglese e in America. Tutto il film è un atto di coraggio, la storia, la riscoperta di un'America profonda filmata mille volte, la scommessa di usare una star come Penn per un personaggio tanto atipico. Ma sotto il trucco pesante, l'anima di This must be the place è grandiosa, un vero squarcio sul cinema del futuro. È un road movie lento, come il passo timido del suo protagonista Cheyenne, rockstar in splendido ritiro alle porte di Dublino, isolato e spaventato dal mondo, aggrappato a una materna moglie e a un'amica del cuore adolescente. Un antieroe solitario, ma a un tempo simbolico di una generazione, una società dove ormai è smarrita perfino l'idea dell'età adulta. Qui il cinquantenne ragazzo è raggiunto dalla notizia della morte del padre. Un padre lontano, che viveva a New York, dal quale Cheyenne è scappato trent¿anni prima. Ed è bello e doloroso che proprio dopo la morte reale di un padre già sepolto da tempo nel suo cuore di figlio, Cheyenne parta alla ricerca di un rapporto. Attraverso la ricerca di quello che era stato il nemico di tutta la vita del padre, il carnefice nazista da cui era stato umiliato nel lager. Comincia da questa irruzione di una tragedia assoluta e rimossa, l'Olocausto, nella vita tutto sommato fatua e opulenta di una ex rockstar, il terribile e bellissimo viaggio a ritroso e nel futuro di Cheyenne. «Un romanzo di formazione di un cinquantenne», l'ha definito l'autore. Sulla strada, gli incontri e le solitudini, le persone e i luoghi, le esperienze e i dubbi che cambiano la vita. Fino all'incontro del protagonista col «nemico di famiglia», l'ormai novantenne nazista, cui la sceneggiatura affida un monologo capolavoro, prima di chiudere con la scena di una raffinata, amara vendetta.
Uno splendore di film, una bella scrittura sul filo dell'ironia, un respiro e una capacità visionaria unici nel panorama del cinema non solo italiano, la fotografia di genio di Luca Bigazzi. È il film più corale del regista napoletano, grande anche in personaggi laterali come l'inventore di trolley o il cacciatore di nazisti. La strepitosa Frances McDormand regala il primo bel ritratto di donna della galleria di Sorrentino. Di Sean Penn che si può dire ancora? A voler cercare un difetto, nella seconda parte il talento per la divagazione prende un po' la mano al regista. Dettagli in una meraviglia."
Curzio Maltese 'la Repubblica'
"L'occhio di Sorrentino isola le persone e le cose, alla ricerca di uno sguardo non contaminato né contaminabile. Quei personaggi e quelle immagini comunicano da sole. Non senti la necessità di dialoghi o di sequenze: quando bucano lo schermo non hanno bisogno di battute o di gag. Vivono per forza d'immaginazione e di immagini. (...) Ma l'originalità dello sguardo a volte perde un po' di sorpresa."
Paolo Mereghetti 'Il Corriere della Sera'
"Paolo Sorrentino fa il film più profondo di Cannes e regala a Sean Penn il ruolo che potrebbe dargli il premio per la migliore interpretazione.(...) Splendidamente fotografato, una cifra stilistica ben riconoscibile, le musiche di David Byrne come colonna sonora, This must be the place è un film adulto raccontato con un sentimento da adolescenti."
Stenio Solinas 'il Giornale'
"Eccentrico, ondivago e, occasionalmente, affascinante e dolce, questo curioso film potrebbe non incontrare il favore di pubblico e critica (...) L'eccentrica performance di Sean Penn è il punto di forza di un film che sbanda un po' (...)"
Todd McCarthy 'Hollywood Reporter'
"Per tecnica, ambizione e stile, Paolo Sorrentino può ben essere considerato un maestro emergente del cinema italiano. Il suo primo film in lingua inglese è superbabemente elegante (...). Non è il film di Sorrentino che preferisco però merita di essere in concorso a Cannes e merita di essere visto per il cameo di David Byrne."
Peter Bradshaw 'The Guardian'
"Se il cinema fosse un campionato di calcio, si potrebbe dire che i film di Sorrentino praticano una sorta di personale e originalissima commistione di contropiede all’italiana e inventività carioca. Non un film che assomigli ad un altro, se non per la comune, estenuata ricerca stilistica e l’ansia di esplorare, reiteratamente, situazioni eccentriche e personaggi estranei ad ogni verosimiglianza. Colto ogni volta di sorpresa, lo spettatore (in primis quello professionale, notoriamente più rigido e meno reattivo) precipita in uno stato di stordimento prossimo all’inazione. E’ successo anche stavolta, in maniera forse ancora più evidente del solito: forse per le notevoli aspettative generate dal primo progetto in lingua inglese del regista napoletano, decisamente oversize rispetto agli scarni budget nostrani. O, forse, per la barriera di un idioma che i critici italiani frequentano poco e male, risultando qui invece essenziali sottigliezze e calembour verbali non meno delle ardite acrobazie imposte da Luca Bigazzi alla mobilissima macchina da presa, o delle raffinatezze interpretative di uno Sean Penn semplicemente superlativo. Da cui certi rimproveri, neppur troppo velati, di sostanziale inconcludenza e riprovevole mancanza di spessore, quando invece il disegno è chiaro, almeno quanto le strategie formali messe in atto da Sorrentino (senza dimenticare gli assist procuratigli da Umberto Contarello, co-sceneggiatore in stato di grazia).
This Must Be the Place è in un certo senso un racconto di catarsi e redenzione come i suoi film precedenti, ma è soprattutto un’ardita variazione sul genere road movie ampiamente debitrice della tradizione letteraria picaresca. Ora, se c’è un elemento che contraddistingue quest’ultima, oltre alla promiscuità dei toni e la prevalenza di situazioni comiche e assurde calate in una dimensione epica, è l’assoluta orizzontalità del racconto. Sorrentino si appropria di entrambi i principi formali, comprimendo e annullando la profondità presupposta dai temi del film (la tardiva maturazione del protagonista e la ricerca del vecchio nazista che ne aveva umiliato il genitore) nella superficie, quanto mai elegante e godibilissima, di una narrazione che inanella un episodio stravagante dopo l’altro, un incontro ogni volta più strampalato e bizzarro del precedente, fino ad apparire come il risultato di una scommessa eccentrica giocata dagli autori sulla pelle di noi spettatori: non consentire mai che un’inquadratura lasci intuire la successiva, o una situazione appena tratteggiata ne presupponga un’altra secondo una logica di causa ed effetto.
In un film di soli partiti presi - come imporre a Sean Penn di trascinarsi dietro un incongruo trolley per tutto il film, o di parlare in un irresistibile falsetto al ralenti, che è una delle infinite risorse esilaranti del film – ha poco senso chiedersi se il finale sia discutibile nella sua ostinata leggerezza, o quanto colpevoli risultino le indulgenze stilistiche a fronte della pesantezza di un tema (l’Olocausto) che reclamerebbe un diverso trattamento. Conviene invece abbandonarsi senza riserve a questa improbabile e disarmante odissea americana, sulle tracce dell’Ulisse più ingenuo e accattivante che si potesse immaginare."
Alberto Barbera 'Cinematografo.it'
Premio della Giuria Ecumenica al 64mo Festival di Cannes (2011) - Realizzato nell'ambito del programma Media dell'Unione europea, con il supporto di Eurimages, in collaborazione con SKY, Canal +, CineCinema, France Television, in associazione con Intesa SanPaolo e con la partecipazione di Pathé - Montaggio del suono: Srdjan Kurpjel.