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Trattativa Stato-mafia: indagato Calogero Mannino

L'ex ministro democristiano indagato per "attentato a Corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato"

24 febbraio 2012

L'ex ministro democristiano Calogero Mannino è stato iscritto dalla Procura di Palermo nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e la mafia subito dopo le stragi.
Mannino è indagato per "attentato a Corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato". Secondo quanto si apprende da ambienti giudiziari il parlamentare sarà interrogato lunedì prossimo dai magistrati che coordinano l'inchiesta, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i pm Nino Di Matteo, Paolo Guido e Lia Sava.
Secondo i magistrati della Dda di Palermo che hanno iscritto l'ex ministro nel registro degli indagati, Mannino avrebbe fatto pressioni dopo le stragi del '92 per alleggerire il carcere duro per i mafiosi.

Dopo l'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima, nel marzo '92, Mannino avrebbe espresso timori per la sua vita. A parlarne è stato anche di recente, durante un'interrogatorio ai magistrati di Palermo, l'ex presidente del Senato Nicola Mancino. "Sono il prossimo della lista" avrebbe detto Mannino dopo avere saputo che l'omicidio di Lima, uomo della mafia nella politica, era solo l'inizio di una strategia eversiva pensata da Cosa nostra. Un timore confidato, a marzo del 1992, al compagno di partito e di corrente Nicola Mancino che di lì a poco sarebbe diventato ministro dell'Interno.
Oggi, però, c'è di più: tanto che, da potenziale obiettivo dei boss, Mannino è diventato indagato. Nell'avviso di garanzia che la Dia gli ha notificato, i magistrati contestano all'ex ministro siciliano il reato di "attentato a Corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato" aggravato dall'avere agito in concorso con più di 10 persone - esponenti mafiosi e pubblici ufficiali - e dall'avere agevolato Cosa Nostra.

"Leggo su un giornale web (viva il segreto investigativo!) la notizia dell'avviso di garanzia che mi era stato notificato ieri dalla Dia per conto della Procura della Repubblica di Palermo. Se dopo 17 anni di processi dai quali sono uscito totalmente assolto debba sopportare la reitera di un pregiudizio assurdo ed infondato, com'è stato dimostrato per le accuse che mi hanno provocato anche la detenzione per due anni, se mi lascia ancora qualche forza è gridare la mia indignazione", ha commentato con amarezza l'ex ministro alludendo alle accuse di concorso in associazione mafiosa per cui è stato processato e dalle quali è stato assolto con sentenza passata in giudicato. "Fantasticare su qualche partecipazione al contesto della cosidetta trattativa significa alterare i fatti, la loro rappresentazione anche dopo venti anni e tentare di fare di me il capro espiatorio di rappresentazioni da disinformazione, probabilmente quelle che hanno reso impossibile accertare la verità di quegli anni tragici - ha detto ancora - Avrei esercitato 'pressioni su appartenenti alle istituzioni... affinché non fosse adottato, o non fossero prorogati provvedimenti…di cui all'art.41 bis'. Se non fosse il testo del capo d'accusa lo considererei o uno scherzo o un delirio. Ma vengo sottoposto ancora una volta 'al martirio della pazienza'. La mia difesa ancora una volta sarà secca ed intransigente. Respingo nel modo più totale ogni sospetto ed anche impressione d'accusa".

Comunque, il verdetto di proscioglimento, che "copre" per sempre l'ex ministro dalla contestazione del concorso, non impedisce ora alla Procura di formulare una nuova accusa: quella di avere fatto "pressioni su appartenenti alle istituzioni affinchè non fossero adottati o prorogati provvedimenti di 41 bis a detenuti di mafia".
Nell'avviso di garanzia non c'è cenno alle fonti di prova: ma, secondo indiscrezioni, i magistrati di Palermo avrebbero recentemente raccolto elementi, testimoniali e documentali, tali da arrivare a formulare una contestazione tanto specifica.
Il contesto ricostruito dalla Procura è questo: prima del tritolo di Capaci lo Stato era già in guerra. Una guerra che aveva fatto i suoi morti, come l'eurodeputato Dc Salvo Lima, e che sarebbe proseguita con altri delitti eccellenti. I vertici delle istituzioni erano a conoscenza di un piano di destabilizzazione ordito dalla criminalità organizzata.

Lo sapevano bene il capo della polizia Vincenzo Parisi e l'allora ministro dell'Interno Vincenzo Scotti che provò a dare l'allarme pubblicamente, avvertendo i prefetti di stare all'erta, ma venne scaricato. E costretto a giustificare quella che autorevoli esponenti del suo partito, come Giulio Andreotti, aveva definito una "patacca" davanti alla commissione Affari costituzionali.
Nella lista degli obiettivi dei clan, che dopo le conferme delle condanne del maxiprocesso si erano sentiti scaricati dai politici "vicini", c'erano Mannino, ma anche Carlo Vizzini e lo stesso Andreotti. Per evitare altre morti, lo Stato avrebbe avviato un dialogo con Cosa nostra che, in cambio dell'impunità per il boss Bernardo Provenzano e un ammorbidimento del carcere duro - nel '93 non vengono rinnovati oltre 300 41 bis a mafiosi -, avrebbe assicurato una tregua e la cattura di latitanti scomodi come Totò Riina. Alla trattativa, portata avanti da mafiosi, uomini dello Stato ed esponenti delle forze dell'ordine, secondo i pm avrebbe preso parte anche Mannino. Certo che, dopo Lima, sarebbe toccato a lui.

Intanto oggi a Palermo, al processo a carico del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, imputati per favoreggiamento aggravato per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nell'ottobre del '95, sul banco dei testimoni siederà l'ex presidente del Senato ed ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, al Viminale dal 28 giugno del '92 al '94.
Se il pentito di mafia Giovanni Brusca ha indicato Mancino come "terminale finale del papello", cioè l'elenco con le richieste che Totò Riina avrebbe fatto allo Stato in cambio della fine della strategia stragista, Mancino ha sempre negato l'esistenza di una trattativa. Nel dicembre scorso l'ex ministro è stato interrogato dai pm di Palermo sulla sua nomina al Viminale. E' stato il suo predecessore al ministero dell'Interno, Vincenzo Scotti, a raccontare ai magistrati che la decisione di togliere, nel giugno del 1992 - cioè appena un mese dopo la strage di Capaci - a Scotti l'incarico di ministro dell'Interno e di assegnarne la guida a Mancino sarebbe stata, "improvvisa". Ma Mancino ha spiegato ai pm di non sapere il perché venne scelto alla guida del Viminale. Sulla vicenda sono stati depositati anche gli interrogatori degli ex segretari della Dc Ciriaco De Mita e Arnaldo Forlani. De Mita ha parlato di "un normale avvicendamento".

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, Reuters.it, ANSA, Lasiciliaweb.it]

- La trattativa e le stragi di mafia (Guidasicilia.it, 18/02/12)

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24 febbraio 2012
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