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TUTTI A GIUDIZIO!

Processo Stato-mafia: via libera dal gup di Palermo, Piergiorgio Morosini. Dieci rinvii a giudizio

08 marzo 2013

La camera di consiglio è durata poco più di un'ora. Segno che, dopo quasi sei mesi di udienze e la consultazione di 300 mila pagine di atti, il gup aveva le idee chiare sulla sorte dell'indagine sulla trattativa tra lo Stato e la mafia. E a confermare la conoscenza approfondita dell'enorme mole di fascicoli che da mesi affolla la cancelleria del giudice Piergiorgio Morosini è il provvedimento con cui ieri il magistrato ha rinviato a giudizio tutti gli imputati: boss, ex politici come Marcello Dell'Utri e Nicola Mancino, ex ufficiali del Ros, il pentito Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino.
Quello letto in aula è un decreto, come prevede il codice di procedura penale, ma il provvedimento del giudice va ben oltre la formula di rito del "dispone il giudizio" e sa tanto di sentenza di condanna. Anche se non manca qualche "bacchettata" alla Procura.

Partendo dalla premessa che i pm hanno formulato una richiesta di rinvio a giudizio generica e nel tentativo di colmare le carenze dell'accusa, il gup fa la storia della trattativa. La sua non è una vera e propria motivazione - i decreti non vanno motivati - e la ricostruzione dei fatti è attribuita ai pm, ma, vista la decisione di mandare a processo tutti, la condivisione dell'impianto accusatorio da parte del gup è evidente.
Le aspettative deluse sul maxiprocesso, con la conferma degli ergastoli ai vertici dei clan, il tentativo di chiudere i conti con chi Cosa nostra riteneva responsabile di quella debacle giudiziaria, la ricerca di nuovi referenti politici: parte da qui il racconto. Con la mafia che cerca di condizionare le istituzioni con le stragi e stringe alleanze con massoneria deviata, frange della destra eversiva, gruppi indipendentisti, per dare vita a un piano eversivo condotto a colpi di attentati rivendicati dalla Falange Armata. Un tentativo di destabilizzare la vita del Paese che salda interessi criminali diversi.

Il primo atto è l'omicidio dell'eurodeputato Dc Salvo Lima, la dichiarazione di guerra che concretizza la minaccia a Corpo politico dello Stato contestata a 8 dei 10 imputati.
Poi arriva l'allarme attentati a una serie di politici. E qui entra in gioco l'ex ministro Calogero Mannino che, per salvarsi la vita, attraverso il capo del Ros Antonio Subranni, avrebbe stimolato l'inizio di una trattativa. Considerazioni quelle su Mannino che potrebbero suonare come un anticipazione di giudizio nei confronti dell'ex politico che ha scelto l'abbreviato e sarà processato proprio da Morosini.

Il gup ha ricordato poi i contatti tra gli ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, il papello con le richieste del boss Totò Riina per fare cessare le stragi, l'ingresso nella trattativa del capomafia Bernardo Provenzano. Il dialogo avrebbe dato i suoi frutti con la decisione dello Stato, nel 1993, di revocare oltre 334 41-bis. Ma l'ammorbidimento della linea sul regime carcerario non sarebbe bastato ai boss e la trattativa sarebbe proseguita con altri protagonisti, come Dell'Utri "portatore" della minaccia mafiosa a Silvio Berlusconi che di lì a poco sarebbe diventato premier.
Nella storia entra anche l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino: avrebbe detto il falso negando di avere saputo dall'allora Guardasigilli Claudio Martelli dei contatti tra il Ros e Ciancimino. "Mai fatta falsa testimonianza", replica l'ex politico Dc.

Una ricostruzione accurata, quella di Morosini, a cui pare mancare l'ultimo capitolo. Almeno per ora. "Andremo avanti con le indagini confortati dalla valutazione del giudice", ha annunciato il pm Nino Di Matteo, uno dei titolari dell'inchiesta.
E forse il simbolo della complessità di una vicenda che ha attraversato fasi delicatissime della storia italiana è tutta nell'abbraccio in aula tra Massimo Ciancimino, teste e imputato allo stesso tempo, e Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso dalla mafia, parte civile all'udienza preliminare. Segno che il confine tra i protagonisti non è poi così netto.

Alcuni mesi fa, incontrandosi fuori al tribunale, dove Ciancimino era andato per un interrogatorio e Borsellino stava partecipato a un presidio del suo movimento, i due si erano salutati con un sorriso. In quell'occasione, a chi aveva sottolineato stupito un'eccessiva cordialità, Borsellino aveva spiegato che "come sempre lo saluto e gli parlo. Del resto se non fosse stato per lui, che ha parlato del papello e della trattativa e ha fatto luce su queste vicende, io sarei ancora considerato un povero pazzo che parla di cose che non esistono".

Nicola Mancino: "Il processo si rapido" - "Chiedo un processo rapido che dimostri la mia innocenza". Lo afferma Nicola Mancino, commentando il suo rinvio a giudizio per la vicenda della trattativa Stato-Mafia. Una decisione che Mancino dice di "non condividere" e basata sul fatto che il giudice si è "preoccupato di non smontare il teorema dell'accusa". "Ritengo che il Giudice dell'udienza preliminare di Palermo - ha dichiarato Mancino - si sia preoccupato di non smontare il teorema dell'accusa sulla conoscenza da parte mia - trascrivo integralmente - dei 'contatti intrapresi da esponenti delle Istituzioni con Vito Ciancimino e per il tramite di questi con esponenti di Cosa nostra' e, perciò, abbia accolto la richiesta di rinvio a giudizio per falsa testimonianza formulata dal Pubblico Ministero". "Non condivido la decisione: sono certo - ha concluso Mancino - che le prove da me fornite all'udienza preliminare sulla mia totale estraneità ai fatti contestatimi saranno accolte dal Tribunale in un dibattimento, che spero si concluda in tempi brevi".

LE TAPPE DELL’INCHIESTA
In principio fu "sistemi criminali", una maxi inchiesta su un presunto golpe secessionista che avrebbe unito Cosa nostra, massoneria deviata ed eversione nera. L'indagine, aperta dall'allora pm della Procura di Palermo Roberto Scarpinato, venne però archiviata.
Fino al 2008, quando il fascicolo tornò a vivere e per la prima volta i magistrati ipotizzarono il reato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato, iscrivendo nel registro degli indagati i boss Totò Riina e Nino Cinà. Poi una seconda archiviazione. E, nel 2008, le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito.

Ciancimino jr è un fiume in piena: racconta di una trattativa avviata dai carabinieri del Ros col padre, conferma in parte le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca. E l'inchiesta viene riaperta. Nel registro della Procura porta il numero 11609/2008.
Decine i testimoni - pentiti, politici, esponenti delle forze dell'ordine, magistrati -, centinaia di migliaia i documenti: tra tutti, atteso per mesi dai pm e annunciato a più riprese da Ciancimino, il "papello", l'elenco delle richieste che Riina avrebbe fatto allo Stato per fermare le stragi. Tra polemiche - la Procura viene accusata di volere riscrivere la storia d'Italia - e colpi di scena - come l'arresto di Ciancimino per calunnia ai danni dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro - si giunge a giugno scorso.

Dall'inchiesta originaria di tempo ne è passato: i personaggi coinvolti ora sono molti di più. Boss, ex ufficiali del Ros, pentiti, lo stesso Ciancimino, che è reo confesso. E politici illustri: da Marcello Dell'Utri a Calogero Mannino, ultimo a essere indagato ma perno della ricostruzione dei pm, fino a Nicola Mancino. I pm lo intercettano per mesi sospettando che stia tentando di inquinare le indagini. E ascoltano una serie di sue telefonate con Loris D'Ambrosio, l'ex consigliere giuridico del capo dello Stato: per gli inquirenti sono la prova che l'ex politico Dc cerca di sottrarre l'indagine a Palermo.

Mancino, citato a deporre al processo a uno dei militari dell'Arma coinvolto, il generale Mario Mori, finisce indagato per falsa testimonianza. Poi il colpo di scena dell'intercettazione "casuale", diranno i pm, delle telefonate tra Mancino e il presidente della Repubblica: irrilevanti per l'indagine, ma finite al centro di un vero e proprio scontro tra la Procura e il Colle. Si arriva al conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta. I giudici danno ragione a Napolitano: le chiamate non dovevano essere ascoltate e vanno distrutte.
Dalla maxi-inchiesta, figlia del procedimento "sistemi criminali", a giugno vengono stralciate le posizioni di 12 indagati: per 10 ieri è arrivato il rinvio a giudizio. Per due, quella del boss Provenzano e di Mannino, è stato disposto lo stralcio.

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, ANSA, Lasiciliaweb.it]

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08 marzo 2013
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