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Un italiano su quattro sa cos'è la povertà

"La situazione del Paese nel 2010". L'annuale rapporto Istat fotografa una Nazione in forte difficoltà

23 maggio 2011

"Nel decennio 2001-2010 l'Italia ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i paesi dell'Unione europea". Il Paese è "fanalino di coda nell'Ue per la crescita". La fotografia della situazione economica del Paese è contenuta nel rapporto annuale 'La situazione del Paese nel 2010' dell'Istat, presentato oggi alla Camera dei Deputati dal presidente dell'Istituto, Enrico Giovannini.
Dal rapporto emerge anche che in Italia l’impatto della crisi sull’occupazione "è stato pesante". Nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi infatti di 532.000 unità, di cui più della metà nel Mezzogiorno. Nel 2010 l'area della disoccupazione continua a crescere seppure con un ritmo meno intenso. Lo scorso anno il numero dei disoccupati è aumentato su base annua dell’8,1 per cento (+158 mila unità), raggiungendo i 2,1 milioni, il livello più elevato dal 2002. Altri due milioni di perone, lo scorso anno, non hanno cercato lavoro perchè ritengono di non riuscire a trovare un impiego oppure attende gli esiti di passate azioni.
Alla crescita della disoccupazione, si legge, hanno contribuito più gli uomini delle donne: l’incidenza della componente maschile sul totale dei disoccupati ha raggiunto il 53 per cento nel 2010 dal 51,4 dell’anno precedente. L’aumento delle persone in cerca di lavoro ha interessato tutte le ripartizioni ma è stato più forte nel Mezzogiorno, dove il tasso di disoccupazione (13,4 per cento nel 2010) è più che doppio di quello del Nord.

Il permanere di condizioni poco favorevoli per le nuove opportunità di impiego, spiega l'Istat, ha determinato il prolungamento della fase di ricerca del lavoro e il conseguente aumento dell’incidenza della disoccupazione di lungo periodo: dal 44,4 per cento del 2009 al 48,4 per cento del 2010. Il fenomeno è peraltro diffuso nella gran parte dei paesi Ue. Con ritmi più contenuti rispetto a quelli del 2009, l’inattività ha registrato un nuovo incremento (+0,9 per cento, pari a 136 mila unità), dovuto in sette casi su dieci alle donne straniere arrivate nel nostro Paese per ricongiungimenti familiari.
"L’evoluzione stagnante della produttività ha rappresentato un limite all’espansione dei salari, contribuendo alla debolezza della domanda interna nel corso dell’intero decennio", afferma il rapporto Istat, secondo cui la "modestissima dinamica dell’economia italiana è stata anche il risultato di una protratta debolezza sia della domanda interna sia di quella estera, che perdura anche in questa fase di ripresa". Alla crescita modesta dell’ultimo decennio, si legge nel rapporto, è corrisposta una "forte capacità dell’economia italiana di generare occupazione, per l’effetto congiunto delle riforme del mercato del lavoro e dello sviluppo di attività a maggiore intensità di manodopera". Di riflesso, la produttività del lavoro nel periodo di espansione 2001-2007 "è cresciuta in misura molto modesta", segnando una caduta del 3,6 per cento (in termini di valore aggiunto per Unità di lavoro) nel biennio 2008-2009. La produttività ha poi registrato un recupero del 2,2 per cento nel 2010, collocandosi però sotto il livello del 2000. Passando agli ultimi dati l'Istituto sottolinea come nella recente fase di recupero dell’attività produttiva, l’input di lavoro totale ha continuato a diminuire, ma "con un ritmo via via attenuato sino a mostrare un primo segnale, ancora incerto, di inversione di tendenza all’inizio del 2011".

Nel 2010, a un aumento del prodotto interno lordo dell’1,3 per cento è corrisposta una riduzione dell’occupazione, in termini di unità di lavoro a tempo pieno (Ula), dello 0,7 per cento. Poiché l’anno precedente essa era calata del 2,9 per cento, il bilancio complessivo in termini di Ula perse nel corso del biennio è di 890 mila unità. La caduta occupazionale risulta meno ampia (circa 680 mila) se misurata in termini di posizioni lavorative. Dal rapporto emerge che nel 2010 il potere d'acquisto delle famiglie "ha subito una ulteriore riduzione dello 0,5 per cento", rispetto al -3,1 per cento nel 2009. Mentre la propensione al risparmio ha raggiunto i livelli più bassi dal 1990. Lo scorso anno, secondo l'Istituto di statistica, è tornato a crescere dell'1% il reddito disponibile delle famiglie, dopo la flessione del 3,1 per cento registrata nel 2009. Mentre la spesa per consumi finali, dopo la flessione dell'1,8% nel 2009, ha ripreso a crescere, aumentando del 2,5% in termini nominali e dell'1% in quantità.
Intanto la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata al 9,1 per cento, il valore più basso dal 1990, 1,4 punti percentuali in meno rispetto all’anno precedente. Per salvaguardare il livello dei consumi, si legge nel rapporto, le famiglie italiane "hanno dato luogo a una progressiva erosione del tasso di risparmio, sceso per la prima volta al di sotto di quello delle altre grandi economie dell’Uem". In particolare, i redditi da lavoro dipendente sono aumentati dell’1 per cento, erano diminuiti dell’1,3 per cento nel 2009. I redditi netti da capitale sono scesi del 5,8 per cento, dopo la caduta del 35,4 per cento del 2009. Il reddito da lavoro autonomo e dalla gestione delle piccole imprese è risultato in calo dello 0,7 per cento (-0,2 per cento nel 2009).

Il tasso di occupazione degli stranieri è sceso dal 64,5 per cento del 2009 al 63,1 per cento del 2010: "un calo più che doppio in confronto a quello degli italiani". Allo stesso tempo, si legge, il tasso di disoccupazione è passato dall’11,2 all’11,6 per cento: su cento disoccupati in più nel 2010 rispetto a un anno prima, circa un quinto erano stranieri, percentuale che sale a oltre un terzo fra le donne. Passando alla crescita dell’occupazione straniera (+183 mila unità rispetto al 2009), questa ha riguardato in più della metà dei casi le professioni non qualificate: dal manovale edile all’addetto nelle imprese di pulizie, dal collaboratore domestico al bracciante agricolo, dall’assistente familiare al portantino nei servizi sanitari. Nel 2010, secondo i dati Istat, sono 880 mila gli stranieri che hanno un livello di istruzione e un profilo culturale più elevato rispetto a quello richiesto dal lavoro svolto. Essi rappresentano il 42,3 per cento degli occupati, una quota più che doppia di quella degli italiani con le stesse caratteristiche. Infine i lavoratori stranieri sono penalizzati anche sul reddito, guadagnando meno di quelli italiani. Nel 2010, la retribuzione media mensile netta degli stranieri è stata del 24 per cento inferiore a quella degli italiani (rispettivamente, 973 e 1.286 euro). Il differenziale aumenta fino al 30 per cento per le donne (788 e 1.131 euro).

IL RISCHIO POVERTA' - Circa un italiano su quattro è a rischio di povertà o esclusione sociale, ma finora la rete di protezione delle famiglie ha tenuto, mentre la crisi economica sembra colpire di più i giovani, che in due anni hanno perso mezzo milione di posti di lavoro.
"Nel nostro Paese circa un quarto della popolazione (24,7%) sperimenta il rischio di povertà o esclusione, un valore superiore alla media Ue (23,1%)", si legge nei focus del rapporto Istat.
In particolare, nel Mezzogiorno, dove vive circa un terzo della popolazione, il 57% subisce almeno uno dei due rischi.
Il presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, nel presentare oggi il rapporto 2010 ha detto che "l'Italia ha pagato, a causa della recessione, un prezzo elevato in termini di produzione e di occupazione, ma ne ha anche limitato l'impatto sociale ed ha evitato crisi sistemiche analoghe a quelle di altri paesi".
"La ricchezza di cui dispongono le famiglie, un tessuto produttivo robusto e flessibile, l'ampio ricorso alla cassa integrazione, il rigore nella gestione del bilancio pubblico, le reti di aiuto informale sono gli elementi che spiegano perché la caduta del reddito prodotto, la più forte tra i grandi paesi industrializzati, non si è trasformata in una crisi sociale di ampie dimensioni".
Ma sono i giovani a pagare un prezzo pesante per la crisi in Italia. Nel biennio 2009-2010 gli under 30 hanno perso 501.000 posti di lavoro.
"I giovani e le donne hanno pagato in misura più elevata la crisi, con prospettive sempre più incerte di rientro sul mercato del lavoro, le quali ampliano ulteriormente il divario tra le loro aspirazioni, testimoniate da un più alto livello di istruzione, e le opportunità. Una quota sempre più alta di giovani scivola, non solo nel Mezzogiorno, verso l'inattività prolungata, vissuta il più delle volte nella famiglia di origine, e verso bassi livelli di integrazione sociale, soprattutto per quelli appartenenti alle classi sociali meno agiate", ha detto Giovannini.

VIA DALLA SCUOLA: 18,8% DI ABBANDONI PREMATURI - Ma se l'economia arranca, i fenomeni sociali non sembrano attraversare un migliore stato di salute: in Italia, nel 2010, gli abbandoni scolastici prematuri rimangono consistenti, al 18,8 per cento. Il dato è più alto tra i ragazzi, 22,0 per cento contro il 15,4 delle ragazze. L'obiettivo fissato dal Programma nazionale di ricerca (15-16 per cento) non appare particolarmente ambizioso e non consente un avvicinamento deciso rispetto agli obiettivi comunitari. Anche questi dati che emergono dal 'Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010', in riferimento alla Strategia Europa 2020 che delinea le grandi direttrici politiche per stimolare lo sviluppo e l'occupazione nell'Ue. Nella Strategia gli abbandoni scolastici prematuri devono essere contenuti al di sotto della soglia del 10 per cento. Il fenomeno dei giovani (20-24 anni) che hanno abbandonato gli studi senza conseguire un diploma di scuola media superiore interessa tutti i paesi dell'Unione (media 14,4 per cento). Sono forti le disparità tra gli Stati che già hanno raggiunto o sono prossimi all'obiettivo (paesi del Nord Europa e molti tra quelli di più recente accesso) e alcuni paesi del Mediterraneo (Spagna, Portogallo e Malta), dove le quote di abbandono superano il 30 per cento. Quasi ovunque l'incidenza è superiore tra i ragazzi rispetto alle ragazze.

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ing, Ansa, Reuters.it]

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23 maggio 2011
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