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Un milione di euro per rimuovere le "carrette del mare"...

Il governo ha stanziato la somma per liberare Lampedusa dai relitti. Ma nell'isola, e nel mare di fronte ad essa, rimarranno per sempre i relitti di migliaia di anime

04 maggio 2011

Un milione di euro per rimuovere i barconi dei migranti arrivati a Lampedusa. A stanziarli è un'ordinanza del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, pubblicata ieri in Gazzetta Ufficiale. Nel provvedimento si rileva che "a causa dell'eccezionale afflusso di imbarcazioni nell'isola la capacità ricettiva del porto risulta saturata e le modalità di ormeggio dei natanti non ne assicurano la preservazione in caso di eventi meteo avversi". Si rischiano inoltre danni ambientali ed ai fondali marini. C'è dunque la "necessità di provvedere con somma urgenza a tutte le attività volte alla rimozione ed allo smaltimento dei relitti".
È il commissario delegato, il capo della Protezione civile Franco Gabrielli, ad occuparsi della rimozione delle imbarcazioni, realizzando un deposito temporaneo in un'area individuata dal sindaco di Lampedusa.

E se il governo, giustamente, ha stanziato una cospicua somma per "ripulire" Lampedusa dalle "carrette del mare" in vista dell'imminente stagione estiva, l'organizzazione umanitaria Medici senza frontiere ha denunciato, attraverso un rapporto, il fatto che nell'isola pelagica "le autorità italiane continuano a fornire una risposta limitata e inadeguata".
Lo scorso fine settimana, quando nell'isola sono arrivate 12 imbarcazioni con 2.665 migranti, "le autorità non avevano nemmeno coperte né quantità di acqua a sufficienza per le persone arrivate in ipotermia o sotto choc. Centinaia di persone sono state costrette a dormire all'aperto, mentre altre nei centri sovraffollati, dove utilizzavano materassi sporchi, non c'erano abbastanza asciugamani, coperte o sapone. Tutto ciò è inaccettabile". Medici senza frontiere precisa che "i migranti ricevono scarse informazioni sui loro diritti e sulle procedure legali". Inoltre, è "insufficiente la separazione fra uomini e donne".
"Nei giorni scorsi - ha spiegato l'organizzazione umanitaria operativa nell'isola siciliana - 1.200 migranti erano stipati nel Cspa (Centro di soccorso e prima accoglienza) di Lampedusa, che può accoglierne solo 800. Di solito, dopo aver trascorso qualche giorno nell'isola, i migranti e i rifugiati sono poi trasferiti nelle nuove strutture di accoglienza italiane, come a Cinisi, Manduria, Caltanissetta e Mineo. Secondo quanto prevedono gli standard europei, l'Italia ha il dovere di fornire ai richiedenti asilo che hanno subito violenza un trattamento prioritario e adatto ai loro bisogni, inclusa l'assistenza medica e il supporto in salute mentale".
Intanto con i trasferimenti questi giorni nell'isola sono rimasti soltanto un centinaio di migranti. Circostanza che, lo si sa benissimo, non può significare che il problema sia stato risolto.

Le storie di chi ha attraversato il Mediterraneo con la speranza nel cuore
Raccontano di essere stati imprigionati e detenuti per anni nelle carceri libiche, dove hanno subito violenze di ogni tipo, da quella sessuale sulle donne ad accoltellamenti e fratture a gambe e braccia per gli uomini. Riferiscono che la situazione in Libia è molto grave, che sarebbero voluti scappare in Tunisia ma che è stato consigliato loro di non farlo perché troppo pericoloso. Raccontano che per le strade di Tripoli ci sarebbero bambini armati.
Sono queste alcune delle storie che negli ultimi tempi gli operatori delle diverse associazioni umanitarie presenti a Lampedusa hanno raccolto dai tanti migranti - eritrei, etiopi, sudanesi, ganesi - provenienti dalla Libia e approdati nelle nostre coste alla ricerca di un futuro migliore. Di seguito riportiamo la storia di Feketre, che ha partorito su un barcone nel Canale di Sicilia, e la storia di Telou, parrucchiera 30enne del Togo, che in quello stesso mare ha perso il marito...

Così ha partorito Feketre - Hanno atteso due anni per lasciare la Libia, dopo aver dato in anticipo 1.200 dollari a uno scafista conosciuto a Tripoli attraverso il passaparola. Quando Asfaw Beley, 27 anni, e la moglie Feketre Alemu, di 26, entrambi etiopi (il padre di lui è eritreo), stavano per avere un bambino, è arrivata la telefonata dello scafista: si parte. Non avevano scelta. E così la donna ha partorito sul barcone, dove viaggiava con altri 284 migranti diretti a Lampedusa, durante una traversata durata quattro giorni.
È finita bene: mamma e bimbo trasportati con un elicottero da Lampedusa nell'ospedale Vincenzo Cervello di Palermo, e qui si sono presi cura di loro.
Asfaw, felice per la nascita di suo figlio, ha ripercorso le tappe della loro avventura, iniziata due anni fa a Tripoli: lei badante, lui muratore, provenienti dallo stesso paese, si incontrano in Libia e decidono di sposarsi. Dopo il matrimonio lui finisce in galera: "Camminavo per strada - ha raccontato - dei poliziotti mi hanno fermato, perquisito, picchiato e senza una ragione mi hanno condotto in carcere, dove sono rimasto sei mesi. Non avevo commesso nessun reato e alla fine sono stato liberato. Ma in Libia funziona così: basta essere neri per subire ogni sorta di violenza. La polizia entra nelle nostre case, ci malmena, ci toglie acqua e cibo. Ho sempre saputo di volere scappare". "Speravo di arrivare sulla terraferma prima che Feketre partorisse - ha raccontato ancora - ma non è andata così. Quando ha avuto le doglie mi sono preparato per aiutarla a far venire al mondo nostro figlio, su quel barcone stipato di gente. Durante la traversata abbiamo incontrato una nave militare canadese, che però ci ha lasciati lì dopo averci dato acqua e biscotti. Poi sono arrivati i soccorsi e l'elicottero ha portato me, mia moglie e il bimbo a Lampedusa. Finalmente salvi, lontani dalla guerra".
Asfaw in Libia ha visto sparare, ha visto civili morire sotto i bombardamenti aerei "e tutto questo orrore non mi lascia, ritorna nei miei incubi notturni, ma adesso vogliamo vivere in pace: una casa, un lavoro è tutto quello che desideriamo".

"Dov'è il mio Selim?"- "Dov'è Selim? Dov'è mio marito? Per favore, aiutatemi a trovare mio marito che è caduto in mare durante la traversata. Non può essere morto. Riportatemelo". Occhi neri come il carbone, bagnati dalle lacrime che scendono copiose, Telou Maniew, 30 anni, parrucchiera del Togo, incinta di pochi mesi, è uno degli oltre 2.500 profughi arrivati in nei giorni scorsi a Lampedusa e partiti, a bordo di vecchie carrette del mare, dalla Libia. E' la stessa Telou, alta, slanciata, con un foulard colorato legato alla testa, a raccontare il suo dramma. Lo ha fatto al suo arrivo al centro d'accoglienza dell'isola, parlando con uno dei mediatori culturali.
La donna era a bordo della carretta del mare che trasportava 461 profughi e che non sono stati soccorsi dalle autorita' maltesi. "Durante la traversata, in piena notte, abbiamo visto in lontananza le luci della motovedetta e per la felicità ci siamo alzati quasi tutti. Per noi stava finendo un incubo. Ma la barca era malandata, rischiava di cadere a pezzi. Così, quando molti di noi si sono sbilanciati su un lato della barca, alcuni sono caduti in mare. Tra loro c'era anche mio marito, Selim e altra gente. Lui non sa nuotare e io ho iniziato a gridare, ma alcuni sono riusciti a risalire in barca". "C'era buio pesto e non si vedeva nulla. La motovedetta si avvicinava sempre di più e io ho pensato che Selim fosse stato tratto in salvo e che ci saremmo rivisti a Lampedusa", ha raccontato ancora Telou. Ma cosi' non è stato. Quando gli oltre quattrocento profughi sono stati trasbordati su diverse motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza, Selim non c'era. E' annegato nel mare nero lasciando Telou nella disperazione.
Appena scesa dalla motovedetta, al suo arrivo a Lampedusa, Telou piangeva e chiedeva a tutti notizie del marito. "Forse è stato portato a bordo di una delle motovedette e ci vedremo tra un po'". Solo dopo ore a Telou arriva la terribile notizia. La donna ha incontrato al centro d'accoglienza di Contrada Imbriacola il cognato, fratello del marito. Lui l'abbraccia forte e le dice che è morto. "Come farò adesso con il mio bambino ancora in grembo - gridava Telou - come faremo adesso? Tutte le nostre speranze si sono dissolte".
Telou ha così raccontato la sua vicenda. "Noi stavamo abbastanza bene in Libia... Avevo un negozio di parrucchiere e anche mio marito lavorava. Certo, i soldi mancavano sempre ma non avremmo mai voluto lasciare la Libia. Stavamo bene lì. Ma dopo l'inizio della guerra tutto è cambiato". Telou e Selim venivano minacciati tutti i giorni dai miliziani di Gheddafi. "E non solo noi - ha raccontato ancora la donna - era diventato impossibile continuare a vivere lì. Venivano gli uomini armati e ci dicevano che dovevamo andarcere al più presto dalla Libia". "Siamo stati così costretti a cercare i mercanti che organizzavano i viaggi verso Lampedusa. Abbiamo pagato quasi mille dollari in due e alla fine siamo partiti. Eravamo centinaia sulla barca e fin dall'inizio abbiamo avuto delle avarie al motore. C'era gente che piangeva, bambini che vomitavano ovunque. Io e mio marito eravamo vicini. Io avevo la nausea, perché sono incinta di due mesi e perché soffrivo il mal di mare, ma l'importante era restare vicino amio marito". Poi la vista delle luci delle motovedette italiane. "Siamo salvi, siamo salvi", hanno iniziato a gridare i profughi. Ma poco prima dell'arrivo delle motovedette alcuni dei migranti sono caduti in acqua. E tra loro c'era anche Selim. Che resterà per sempre in fondo al mare.

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ing, Ansa, Lasiciliaweb.it]

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04 maggio 2011
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