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Una parziale intesa tra le parti

La tesi finale del presidente della Commissione Antimafia: "Quella tra Stato e mafia non fu una trattativa"

10 gennaio 2013

"Sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41 bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto". Lo ha detto Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione Antimafia, nelle sue comunicazioni finali sui grandi delitti e le stragi di mafia del '92-'93.
"Noi conosciamo le ragioni e le rivendicazioni che spinsero Cosa nostra a progettare e ad eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola" ha sottolineato Pisanu. "Di certo - ha rimarcato - non prese ordini da nessuno, perché ha sempre badato al primato dei suoi interessi e alla autonomia delle sue decisioni. Tuttavia, quando le è convenuto, quando vi è stata convergenza di interessi, non ha esitato a collaborare con altre entità criminali, economiche, politiche e sociali".
"I vertici istituzionali e politici del tempo, dal Presidente della Repubblica Scalfaro ai presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato in tutte le sedi di non aver mai, in quegli anni, neppure sentito parlare di trattativa. Penso - ha affermato Pisanu - che non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà alla Costituzione e allo Stato di diritto".

"Tuttavia - ha spiegato - rimane il sospetto che dopo l'uccisione dell'onorevole Lima, uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per indurre Cosa nostra a desistere dai suoi propositi in cambio di concessioni da parte dello Stato. In particolare l'onorevole Mannino, ministro per il Mezzogiorno nella prima fase della trattativa (lasciò l'incarico del giugno del 1992), avrebbe preso contatti a tal fine con il comandante del Ros, generale Subranni. Sull'onorevole Mannino - ha ricordato Pisanu - pende ora una richiesta di rinvio a giudizio per il reato aggravato di minaccia ad un corpo politico, amministrativo e giudiziario. Analoga richiesta, ma per un periodo diverso, pende sul senatore Marcello Dell'Utri".

"Occorre anche ricordare - ha proseguito Pisanu nelle sue comunicazioni - che Nicola Mancino, ministro dell'Interno dal giugno 1992 all'aprile 1994 è stato indicato, per sentito dire, dal pentito Brusca e da Massimo Ciancimino come il terminale politico della trattativa. Il primo lo indica stranamente associandolo al suo predecessore Rognoni che, peraltro, aveva lasciato il ministero dell'Interno del 1983, 9 anni prima dei fatti al nostro esame; il secondo è un mentitore abituale. Audito dalla nostra commissione - ha sottolineato Pisanu - Mancino è apparso a tratti esitante e persino contraddittorio. La Procura di Palermo ne ha proposto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Le posizioni degli ex ministri Mannino e Mancino sono ancora tutte da definire in sede giudiziaria: una semplice richiesta di rinvio a giudizio non può dare corpo alle ombre".

Per il presidente della Commissione Antimafia dunque, "ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro e quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano". "Ci furono tra le due parti convergenze tattiche ma strategie divergenti - ha spiegato ancora Pisanu nelle sue comunicazioni - i carabinieri del Ros volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano invece svilupparle fino a piegare lo Stato".
"Piegarlo fino a quale punto? - chiede Pisanu - All'accettazione del papello o di qualche sua parte? A rigor di logica e a giudicare dai fatti, non si direbbe. Se Cosa nostra accettò una specie di trattativa a scalare, scendendo dal papello al più tenue contro papello, e da questo al solo ridimensionamento del 41 bis, mantenendo però alta la minaccia terrificante delle stragi, c'è da chiedersi se il suo reale obiettivo non fosse ben altro: e cioè il ripristino di quel regime di convivenza tra mafia e Stato che si era interrotto negli anni '80, dando luogo ad una controffensiva della magistratura, delle forze dell'ordine e della societa' civile che non aveva precedenti nella storia". "Certo - ha rimarcato Pisanu - l'obiettivo era ambizioso, ma il momento era propizio per la mafia e per tutti i nemici dello Stato democratico. Per quanto risulta dalla nostra inchiesta - ha aggiunto - le trattative cessarono sul finire del 1993 e le stragi nel gennaio del 1994, con il fallimento dell'attentato allo stadio Olimpico e con l'arresto, quattro giorni dopo, dei fratelli Graviano, capi militari dell'ala stragista. A quel punto Cosa nostra aveva perso la partita su entrambi i fronti".

Parlando della strage di Capaci, Pisanu ha sottolineato che "fu necessaria una speciale competenza tecnica" per l'attentato a Giovanni Falcone. "Mi chiedo: Cosa nostra ebbe consulenze tecnologiche dall'esterno?". La speciale competenza tecnica, ha spiegato Pisanu, fu necessaria per realizzare un innesco che evitasse l'uscita laterale dell'onda d'urto dell'esplosione e la concentrasse invece sotto la macchina di Falcone. "Sulle scene degli attentati e delle stragi - ha sottolineato ancora - abbiamo visto comparire, qua e là, figure rimaste sconosciute, presenze esterne: da dove venivano? Gruppi politico-terroristici come 'Falange armata' rivendicarono tempestivamente degli attentati di Cosa nostra: come si spiega? Solo negli ultimi anni - ha fatto notare il presidente della Commissione Antimafia - è stato scoperto il gigantesco depistaggio delle indagini su via D'Amelio, depistaggio che ha lungamente resistito al tempo e ha ben due processi: chi lo organizzò? E perché furono lasciati cadere i sospetti che pure emersero fin dagli inizi? Potrei continuare con domande analoghe, - ha detto Pisanu - ma queste mi bastano per dire che, a conclusione della nostra inchiesta, non si sono ancora dissipate molte delle ombre che avevo già intravisto nelle mie comunicazioni alla Commissione del 30 giugno 2010''.

"Noi conosciamo le ragioni e le rivendicazioni - ha sottolineato - che spinsero Cosa nostra a progettare e ad eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola". Per Pisanu, "Cosa nostra è ancora forte e temibile. Ma dagli anni '80 ad oggi, ha perso nettamente la sua sfida temeraria allo Stato". "Se nel '92-'93, similmente ad altre fasi di transizione, si mise in opera una strategia della tensione, Cosa nostra ne fece parte. O meglio, fu parte, per istinto e per consapevole scelta, del torbido intreccio di forze illegali e illiberali che cercarono di orientare i fatti a loro specifico vantaggio. Indebolire lo Stato - ha sottolineato Pisanu - significava renderlo più duttile e più disponibile a scendere a patti". "Forse - ha detto - al di là delle richieste del 'papello', c'era l'obiettivo più generale di ristabilire quel rapporto di 'convivenza' con lo Stato che, prima della rottura degli anni '80, aveva segnato per oltre un secolo la storia della mafia. Ma una cosa sono gli obiettivi, altra cosa sono i risultati. Certamente - è l'analisi del presidente della commissione di palazzo San Macuto - con le stragi del 1992-93 Cosa nostra inflisse allo Stato perdite irreparabili di vite umane e preziose opere d'arte, dimostrò la massima potenza di fuoco ma segno' anche l'inizio del suo declino". "Infatti, subito dopo - ha ragionato Pisanu - si è inabissata nella società, nell'economia, nella politica e da allora non è più riemersa con la forza delle armi. La sua leadership è stata decapitata e fino ad oggi non è neppure riuscita a ricostruire gli organi di governo; i suoi affari hanno subito il salasso continuo dei sequestri e delle confische dei beni, e in definitiva ha perso peso e prestigio anche rispetto ad altre organizzazioni criminali nazionali, come la 'ndrangheta, tanto all'interno quanto all'estero".

"Per di più - ha fatto notare Pisanu - in Sicilia e nel resto d'Italia è cresciuta una vasta opposizione sociale alla mafia, che ha trovato i suoi eroi in Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e che, con il suo vivace associazionismo, le toglie l'ossigeno del consenso popolare. Tutto questo - ha concluso - non vuol dire che Cosa nostra è finita, tutt'altro. E' vero: le sue armi tacciono. Ma essa è penetrata nelle fibre della realtà siciliana e lì continua ad agire in profondità distorcendo le regole dell'economia, le relazioni sociali e le decisioni politiche".

Il pm Nino Di Matteo, magistrato del processo sulla trattativa, commentando le parole del presidente della commissione Antimafia ha detto: "La nostra indagine è arrivata a conclusioni diverse da quelle della commissione Antimafia: come ho ribadito oggi in aula per noi la trattativa partì da un input politico".
Di Matteo ha parlato di un asse tra l'ex ministro Calogero Mannino, i carabinieri del Ros e l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. "La trattativa - ha spiegato - si sviluppa con le istituzioni sia politiche che degli apparati delle forze dell'ordine e viene dettata da una scelta inconfessabile della ragion di Stato che provoca conseguenze devastanti". Il patto, per Di Matteo, "rafforza negli uomini della mafia il convincimento che le bombe pagano e determina la scelta della linea terroristica e un parziale cambiamento degli obiettivi da eliminare che non sono più i politici ma coloro i quali sono di ostacolo alla trattativa".

Per Antonio Ingroia, candidato leader per la lista Rivoluzione Civile, "dalle parole di Pisanu traggo argomenti ulteriori per confermare la bontà della mia scelta di entrare in Parlamento. Una trattativa senza mandato politico? Credo che il presidente non abbia ben idea di quello che è accaduto in Italia. Ci sono le prove che la trattativa aveva mandanti politici e che fu portata avanti proprio per realizzare il patto politico mafioso".

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, ANSA]

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10 gennaio 2013
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