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Via dall'Afghanistan radicalmente?

Nessun ritiro ma tre possibili strade per un progressivo disimpegno. Nuove beghe per il governo

22 gennaio 2007

Quando e come andranno via i nostri militari dall'Afghanistan? Tale domanda è legittimo se la ponga ogni cittadino italiano, innanzi tutto perché l'Italia con la missione dell'ISAF (la forza di intervento internazionale denominata ''International Security Assistance Force'') si trova in Afghanistan dal 2003, e poi poco si comprende per quale motivo, dopo essere andati via dall'Iraq (dove la situazione non è migliorata), si debba rimanere in un luogo dove gli intenti della ''missione di pace'' (ripristinare pace e democrazia sconfiggendo il regime dei taleban; difendere i diritti umani della popolazione afghana; ricostruire le città distrutte dai conflitti e aiutare a risollevarne la situazione economica; mitigare - o meglio - intervenire con decisione per lo sradicamento delle colture d'oppio) non hanno ancora avuto veri riscontri, e certo non per colpa dei nostri militari.
Dal mondo della politica, che i ''rappresentanti'' del popolo pongano le medesime domande e richiedano concrete risposte è assolutamente ovvio, diventa però complicato affrontare i fatti reali quando la legittima richiesta di risposte diventa strumentale per quelli che ci sembrano i soliti ''giochi di potere''.

Andiamo per ordine e poniamo quelle che sono le nostre impressioni sugli ultimi dissapori all'interno della maggioranza di governo proprio sul rifinanziamento della missione italiana a Kabul...
Ci è sembra che tutto ha avuto inizio con la storia del raddoppio della base militare americana a Vicenza. In breve riassumiamo il fatto: il precedente governo sembra aver preso accordi con gli Stati Uniti per permettere di raddoppiare la superficie della base Usa che si trova vicinissima al centro di Vicenza. Subito una buna parte dell'attuale governo, mettendosi a fianco della stragrande maggioranza dei vicentini, ha manifestato contro questa ulteriore occupazione di campo da parte degli americani, senonché dai vertici del governo hanno fatto sapere che quel raddoppio della base dev'essere fatto proprio per quegli impegni presi e assodati dal governo Berlusconi. Conclusione: la base dev'essere raddoppiata, malgrado le posizioni della sinistra radicale (accusata di antiamericanismo etc etc) appoggiata anche dal presidente della Camera, e soprattutto malgrado il parere contrario dei vicentini (ascoltati marginalmente).
La questione non si è però conclusa qui. Infatti, i Verdi, Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani, piccati dalla storia di Vicenza, hanno messo sul tavolo governativo la questione Afghanistan, e premettendo che niente aveva a che vedere con la storia della base Usa, hanno affermato che difficilmente avrebbero votato a favore di un rifinanziamento alla missione (che si affronterà nel Consiglio dei Ministri di questo giovedì) se prima non si ha chiara una ''exit strategy''.

Come dire, finito il ritiro di Caserta tutto avrebbe dovuto filare (almeno per un periodo) liscio, invece ecco che le crepe della maggioranza aumentano...      
La questione ha palesato l'esigenza di un ennesimo vertice a sorpresa, che si è tenuto a palazzo Chigi nella tarda serata di ieri. Il presidente del consiglio Romano Prodi ha convocato i leader di Rifondazione e Pdci, Giordano e Diliberto, e il ministro Pecoraro Scanio per discutere del decreto con cui rifinanziare la missione a Kabul. Presenti anche il ministro degli Esteri Massimo D'Alema e il ministro della Difesa Arturo Parisi.
Il vertice si è concluso a mezzanotte e mezza, dopo quasi due ore di riunione. E proprio come all'uscita del conclave casertano il clima fra partecipanti è stato definito sereno, con qualche idea ma, sostanzialemente, con un nulla di fatto.
''Il clima dell'incontro è stato sereno. Non è stato raggiunto nessun accordo - hanno sottolineato diversi partecipanti alla riunione - ma è stata valutata la necessità di una possibile discontinuità anche attraverso nuove iniziative per evitare decreti legge-fotocopia''.

Il punto fermo lo ha però dettato Massimo D'Alema: ''Andare via dall'Afghanistan, dove c'è l'Onu e l'Unione europea e dove nessun Paese sostiene che le forze internazionali devono andarsene, non è un atto politico, ma sarebbe una rinuncia ad esercitare il nostro ruolo politico e ci isolerebbe''. Quindi da Kabul non ci si ritira. Ma è sempre il ministro degli Esteri a spiegare che non si resta fermi: ''La pacificazione ha bisogno di impegno politico e umanitario e noi siamo in prima fila per chiedere un cambio di strategia''. Poi un altro segnale distensivo: ''Non è drammatico che la coalizione discuta e sono convinto che sinistra riformista e sinistra radicale possano governare insieme''.

E sono tre le strade che potrebbero caratterizzare, almeno, la discontinuità richiesta dai partiti della cosiddetta ''sinistra radicale''. La prima è la richiesta di organizzare una conferenza di pace internazionale che dovrebbe riguardare tutta l'area e coinvolgere anche l'Iran. Un'ipotesi caldeggiata soprattutto da Rifondazione anche se difficilmente realizzabile, visto che il sì degli Stati Uniti appare difficile. La secondo è il potenziamento dell'aspetto civile e umanitario della missione. Oggi i civili italiani sono solo poche unità, potrebbero aumentare coinvolgendo anche le organizzazioni non governative. Allo stesso tempo i 2 mila militari italiani in Afghanistan cambierebbero in parte ruolo. Sarebbero impiegati di più nell'addestramento di militari e polizia afghana, nella prospettiva, un giorno, di far camminare il Paese sulle sue gambe. E spostarsi in parte da Kabul ad Herat, zona dove già adesso la componente umanitaria è più forte.
Il terzo terzo punto è il più delicato. Nessuno la chiama apertamente exit strategy perché la formula sarebbe piuttosto diluita: la progressiva diminuzione del contingente richiederebbe non mesi ma anni e sarebbe comunque vincolata all'effettivo miglioramento delle condizioni del Paese.
Inoltre, oltre alle tre possibili strade per la discontinuità, sarebbe importantissimo, secondo quanto riferito da alcuni partecipanti, affrontare con maggior decisione la lotta al traffico illegale di oppio che ha una delle sua basi di partenza proprio a Kabul.

Intanto la Nato chiede più uomini. ''Più mezzi e più soldati sarebbero necessari in Afghanistan per dare una spinta decisiva contro i taleban''. Ad affermarlo il comandante in capo delle forze Nato in Afghanistan, il generale britannico David Richards, intervistato dall'edizione on line del Guardian. ''Dobbiamo impegnarci con maggiore vigore per almeno un anno se vogliamo vincere'' ha aggiunto il generale auspicando che le nazioni Nato si preparino a una soglia di rischio per il 2007 simile o superiore al 2006 e che esse non possono abbandonare così la vicenda. ''E' un'ipotesi pericolosa ritenere che le modalità di intervento dello scorso anno - ha detto - siano le stesse per il prossimo. In ogni caso, una situazione stabile non è un obiettivo valido''.
La forza ISAF impegnata in Afghanistan conta circa 30mila soldati provenienti da 37 nazioni. Tra i compiti c'è anche quello di formare e addestrare una forza militare interna. ''L'esercito afghano è ormai organizzato di modo abbastanza soddisfacente - ha concluso il generale - ma ha bisogno di un altro anno per crescere numericamente e raggiungere un livello d'addestramento sufficiente per assicurare il controllo e la sicurezza''.

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22 gennaio 2007
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