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Via dall'Iraq prima che sia troppo tardi

Mentre il dramma della guerra si svolge quotidiano, gli Usa pensano a quale ritiro sia meglio adottare

30 novembre 2006

Continua la guerra in Iraq, continuano a morire gli innocenti. Ieri a Ramadi le forze statunitensi hanno nuovamente indossato la veste da assassini (ma l'hanno mai dismessa?) e con una cannonata hanno strappato la vita a quattro bambine e una neonata. Un'incidente, hanno precisato in un comunicato gli americani, avvenuto ''disgraziatamente'' durante uno scontro con un gruppo di miliziani armati.
''È un giorno particolarmente tragico - hanno scritto ancora nella nota - che ci ricorda che le azioni degli insorti si ripercuotono su tutti gli iracheni''. ''Sono stati intrapresi sforzi per offrire tutto l'aiuto possibile ai familiari delle vittime'', ha aggiunto un portavoce militare, aiuto che è stato rifiutato.

Per l'America il problema rimane immutato: andare via dall'Iraq, prima che sia troppo tardi.
Secondo quanto anticipa questa mattina il quotidiano americano New York Times, il gruppo di studio sull'Iraq, guidato dall'ex segretario di stato James Baker, ha raggiunto raggiunto un accordo sul ritiro delle truppe americane: un ritiro graduale, senza però un calendario preciso di scadenze.
I ''dieci saggi'' della commissione, le cui conclusioni verranno rese pubbliche il 6 dicembre prossimo, hanno concordato di proporre al presidente americano George W. Bush, che si trova a colloquio ad Amman con il premier iracheno Nouri Al-Maliki, di indicare con chiarezza che il ritiro delle truppe americane dall'Iraq comincerà ''molto presto'', in un periodo indeterminato del 2007, senza però fissare scadenze precise.
Un approccio che consentirebbe di trovare una soluzione di compromesso tra le richieste dei democratici di stabilire il calendario preciso del rientro delle truppe Usa e l'insistenza del presidente Bush sul fatto che le truppe Usa dovrebbero restare in Iraq fintanto che il governo iracheno richiederà il loro aiuto.

Il rapporto della commissione raccomanda anche l'avvio di contatti diretti con Iran e Siria per cercare di risolvere la crisi mediorientale. Tali contatti potrebbero avvenire nell'ambito di una conferenza regionale sull'Iraq o sui problemi di più ampia portata della intera regione del Medio Oriente. Alla fine, tuttavia, gli Stati Uniti dovrebbero accettare la realtà e iniziare un dialogo diretto e ad alto livello con Teheran e Damasco. Un'ipotesi respinta, finora, dal presidente George W. Bush.
Intanto, anche il presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad, reduce da tre giorni di incontri con il presidente iracheno Jalal Talebani, ha sollecitato gli Stati Uniti al ritiro dall'Iraq, e in una inconsueta lettera di cinque pagine indirizzata al popolo americano, ha accusato il loro presidente di governare il Paese con ''coercizione, forza e ingiustizia''.
La lettera, annunciata a Teheran e indirizzata ai ''nobili americani'', è stata diffusa dalla missione iraniana all'Onu.
Non è la prima volta che il presidente iraniano si impegna in uno sforzo di diplomazia postale: in maggio Ahmadinejad scrisse una lettera di 18 pagine a Bush a cui il presidente americano non ha mai risposto. Stavolta il capo di stato iraniano ha spezzato una lancia con Washington per il riconoscimento dello stato palestinese e ha messo in guardia il partito democratico: ''Dopo aver vinto le elezioni di midterm saranno ritenuti responsabili dal popolo e dalla storia''.
Ahmadinejad ha spiegato di aver deciso di scrivere al popolo americano in spirito di amicizia e perché Stati Uniti e Iran hanno ''la responsabilità comune di promuovere e proteggere al libertà e la dignità umana''. E a proposito dell'Iraq, Ahmadinejad ha sostenuto che è ora che l'America si ritiri ''ora che l'Iraq ha una costituzione, un parlamento e un governo indipendente''.

E mentre ''i potenti del mondo'' disquisiscono di guerra e di pace e di democrazia da eleganti saloni diplomatici, la situazione di sfollati e rifugiati iracheni, in fuga per lo più verso la Siria e la Giordania, diventa sempre più difficile.
In un incontro, che sui è tenuto all'inizio di Novembre  a Ginevra, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNCHR) ha espresso la propria crescente preoccupazione per l'incessante violenza in Iraq e per l'assenza di una risposta umanitaria a livello internazionale in favore dell'altissimo numero di persone sfollate in Iraq.
I funzionari dell'Unhcr dopo aver fatto ritorno dalla regione hanno avvertito che attualmente si assiste a una crisi umanitaria ancora più grave di quella che ci si poteva aspettare nel 2002-2003. L'Agenzia inoltre non dispone dei fondi sufficienti per far fronte al continuo aumento del numero di sfollati e per poter aiutare gli iracheni che hanno sempre più bisogno di aiuto sia all'interno che all'esterno del Paese. In preparazione di un possibile esodo dell'entità massima di 600mila rifugiati, previsto nel 2002-2003, l'Unhcr aveva inizialmente stanziato un budget di 154 milioni di dollari. Attualmente, vi sono diverse centinaia di migliaia si sfollati in più di quanto era stato previsto allora e il budget ammonta a 29 milioni di dollari, finanziato solo per il 60 per cento.

Se, da un lato, la comunità internazionale ha offerto miliardi di dollari per finanziare i programmi di ripresa e sviluppo per l'Iraq - molti dei quali non sono ancora stati realizzati per ragioni di sicurezza - dall'altro i programmi umanitari all'interno dell'Iraq sono ancora trascurati. L'Unhcr auspica ora una rinnovata attenzione sulla crisi umanitaria nella regione. Gran parte dell'attività dell'Unhcr, nei tre anni successivi alla caduta del regime di Saddam, era basata sull'assunto che la situazione interna si sarebbe stabilizzata e che centinaia di migliaia di iracheni precedentemente sfollati sarebbero potuti ritornare a casa. Invece sta esattamente accadendo il contrario, con un incremento dei casi di esodo, legato al protrarsi della violenza. Questo ha reso necessaria una ridefinizione del lavoro dell'Unhcr e delle priorità dell'Agenzia nella regione, passate dall'assistenza a chi voleva ritornare e dall'aiuto a circa 50mila rifugiati non iracheni presenti nel paese, all'incremento dell'assistenza alle decine di migliaia di persone che fuggono ogni mese.

L'Unhcr ha inoltre riferito che attualmente si stima che ci siamo almeno 1,6 milioni di iracheni sfollati all'interno del paese e fino a 1,8 milioni di iracheni negli stati vicini. Molti erano già sfollati prima del 2003, ma ora le persone stanno fuggendo in misura crescente. Quanto agli sfollati interni, l'Unhcr stima che solo quest'anno 425mila iracheni siano fuggiti dalle proprie case verso altre aree all'interno dell'Iraq, principalmente a causa della violenza tra etnie rivali.
Il numero di sfollati continua a crescere al ritmo di 50mila al mese. L'enorme dimensione delle necessità, il protrarsi della violenza e le difficoltà nel raggiungere gli sfollati rendono la situazione così problematica che una soluzione della questione va concretamente oltre la capacità delle agenzie umanitarie, compreso l'Unhcr.
Al di fuori dell'Iraq, i dati che riguardano i paesi nelle più immediate vicinanze sono ancora imprecisi, ma l'Unhcr stima che attualmente vi siano fino a 700mila iracheni in Giordania; almeno 600mila in Siria; almeno 100mila in Egitto; dai 20mila ai 40mila in Libano e 54mila in Iran. Molte persone che si trovano al di fuori dell'Iraq sono fuggite nel corso dell'ultimo decennio o anche prima, ma ora circa 2mila persone al giorno arrivano in Sira e circa mille al giorno in Giordania. La maggior parte di esse non si registra presso l'Unhcr.

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30 novembre 2006
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