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XLVI Ciclo di Rappresentazioni Classiche

Al Teatro Greco di Siracusa in scena la "follia" con l'Aiace di Sofocle e Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide

12 maggio 2010

Il XLVI Ciclo di Rappresentazioni Classiche tratta quest'anno l'insondabile tema della follia con l’Aiace di Sofocle, nella traduzione di Guido Paduano,  per la regia di Daniele Salvo (Maurizio Donadoni nel ruolo del protagonista), e Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide, nella traduzione di Edoardo Sanguineti, per la regia di Carmelo Rifici (Elisabetta Pozzi nel ruolo di Fedra).
I due drammi saranno rappresentati a giorni alterni fino al 20 giugno 2010.
Con l’immagine di una Medea potente e per certi versi insondabile, di un Edipo che si appropria del suo destino senza tuttavia svelarne l’ultimo enigma ai suoi discendenti, si concludeva la stagione INDA 2009, con un epilogo sulla natura misteriosa, inafferrabile, della vita e della morte. L’irrazionale che irrompe nella esistenza umana, temuto perché incontrollabile nel suo potere di devastazione, diviene il filo conduttore del XLVI Ciclo di Spettacoli Classici che porta sulla scena del Teatro Greco di Siracusa due personaggi immensi: Aiace e Fedra.

Scritto probabilmente intorno al 450 a.C. (la datazione è incerta), l’Aiace ha come protagonista l’eroe omerico che di quel mondo arcaico mantiene intatti la forza, il carattere, il sistema di valori. Soprattutto, quella collera incontrollabile che lo porta a desiderare lo sterminio dei Greci quando, a vantaggio di Ulisse, lo privano delle armi del defunto Achille, di cui si considera a pieno titolo l’erede.
Aiace crede di sterminare i suoi compagni, li guarda in faccia mentre li tortura dentro la sua tenda non sapendo di aver ucciso bestiame al loro posto, grazie all’intervento di Atena che lo confonde con immagini false e illusorie: la violenza efferata di Aiace si mescola alla "follia" instillata dalla dea culminando, dopo il "risveglio" alla realtà, nell’unico esito  possibile agli occhi dell’eroe, il suicidio.
Ed è questo lo stesso destino di Fedra, che nutre per il figliastro Ippolito una insana, terribile passione suscitata in lei da Afrodite, un eros concepito come forza che atterrisce perché in grado di trascinare l’uomo in un baratro di dolore. Ma questo destino di "amore e morte", di nozze illecite apparentemente provocato da un intervento esterno, divino, è in qualche modo come una malattia genetica di Fedra, che ricorda, parlando con la nutrice, la madre Pasifae, colpevole dell’amore bestiale per il toro (da cui generò il Minotauro) e Arianna, la sorella amata da Dioniso.
Questo dramma fu rappresentato nel 428. La tragedia è da considerarsi a tutti gli effetti una Fedra, perché l’indimenticabile figura femminile ne è protagonista indiscussa, sebbene la titolazione tramandata riporti Ippolito portatore di corona, con un epiteto distintivo rispetto a una precedente versione.
Ma questa "Fedra" euripidea – destinata ad incidere profondamente nel teatro e nella letteratura occidentale attraverso numerose "versioni" (Seneca, Racine, D’Annunzio, Ritsos, Cvetaeva…) – è essa stessa una riscrittura, concepita dal drammaturgo a seguito di un Ippolito velato che sembra non avesse riscosso l’approvazione degli spettatori ateniesi per l’immoralità di Fedra e delle sue proposte dirette e sfrenate al figliastro (che per questo si copriva il viso inorridito, da cui l’epiteto "velato"). La seconda versione, con cui Euripide vinse l’agone drammatico, testimonia dunque, in qualche misura, un dialogo tra il drammaturgo e la città, e trasforma il vincolo in occasione divenendo un "capolavoro della reticenza" proprio nell’episodio in cui Fedra confessa i suoi sentimenti alla nutrice. Paradossalmente, Fedra ed Ippolito non si incontrano mai, se non attraverso questo terzo personaggio che assume una funzione drammatica e uno spessore straordinariamente importante, shakespeariano ante litteram.

In questi drammi la follia non si manifesta semplicemente come una malattia che si espande e porta alla morte; non avrebbe lo stesso potere di annientare i protagonisti  se non si unisse ad un altro elemento, ad un secondo leit motiv che li attraversa, pur in modo diverso: la vergogna, il pudore, il rapporto con la comunità che ne misura costantemente gli sguardi e l’opinione. E lo fa a tal punto da compensare l’onore irrimediabilmente perduto con il gesto estremo del suicidio: la vergogna supera la colpa. Fedra e Aiace lasciano rispettivamente la scena circa a metà della tragedia (Aiace al verso 632; Fedra al verso 731), ma il loro potere di influenza, la loro centralità nell’architettura del dramma rimane immutata, se non persino amplificata. Così, la reticente Fedra, che ancora nel dialogo con la nutrice sembra ferma nel proposito di non fare dilagare la passione che la invade, finirà con l’esprimere, attraverso la vendetta, lo stesso lato oscuro e potente che la accomuna ad un’altra donna, come lei di stirpe solare, Medea. E, ancora, come nelle Trachinie di Sofocle “i morti uccidono i vivi” (lì è il filtro con il sangue donato dal centauro morente, qui la lettera ingannevole della regina suicida); tuttavia, diversamente da Deianira perché estremamente lucida nella decisione, Fedra annienta volutamente l’oggetto del suo desiderio. Una rete di rimandi e rispecchiamenti, di antitesi e citazioni, ora velate ora esplicite, lega questi capolavori del teatro antico.
Allo stesso modo, la seconda parte dell’Aiace prelude al grande tema che diventerà centrale in Antigone: il dibattito sulla sepoltura che qui contrappone la philia di Teucro nei confronti del fratello defunto al veto dell’Autorità (Agamennone e Menelao) contro il traditore, perché rimanga insepolto. Ma nell’Aiace il conflitto ha un esito diverso rispetto all’Antigone, grazie all’intervento di Ulisse che, con il suo invito alla misura nei sentimenti e al rispetto dei vivi come dei morti, sembra esprimere un monito esplicitamente rivolto a chi guida la città. C’è in lui una profonda forma di saggezza che è insieme dote politica e conquista interiore, da cui tuttavia emerge la “malinconica consapevolezza” di chi nell’avversario  sconfitto riesce a specchiarsi, vedendo in lui la fragilità della condizione umana.

A I A C E
I personaggi (in ordine di apparizione): Atena - Ulisse - Aiace - Coro di Marinai - Tecmessa - Messaggero - Teucro - Menelao - Agamennone

Il dramma si apre con un dialogo tra Atena e Ulisse, dinanzi la tenda di Aiace, sotto le mura di Ilio. Alla morte di Achille le armi del guerriero defunto erano state assegnate ad Ulisse anziché ad Aiace, suscitando in lui una collera contro i compagni così violenta da desiderarne lo sterminio. Ma grazie all’intervento di Atena, che instilla la follia nella mente di Aiace facendogli balenare false immagini davanti agli occhi, questi aveva massacrato bestiame credendo che si trattasse dei Greci. Atena lo dimostra chiamando fuori dalla tenda l’avversario in preda al suo vaneggiamento e facendo in modo che Ulisse lo veda senza essere visto: ciò tuttavia non suscita in lui atteggiamento di scherno o desiderio di vendetta ma una riflessione sulla fragilità umana.
Quando Aiace torna in sé, il terribile "risveglio" alla realtà provoca solo disperazione e vergogna: quello dell’onore perduto diviene ora l’assillo di Aiace che vede nel suicidio l’unico mezzo per riscattare l’onore e la reputazione della sua famiglia. Dinanzi a questa decisione, non sortiscono alcun effetto le invocazioni della concubina Tecmessa o l’amore per il figlio Eurisace, che ora Aiace desidera affidare al fratello Teucro. Tuttavia, per allontanarsi da Tecmessa e dal coro di marinai che cercano di dissuaderlo, l’eroe finge di dare loro ascolto e si ritira in un bosco presso la riva del mare.

Quando il messaggero apprende che Aiace non si trova più nella tenda, riferisce le parole del profeta Calcante che aveva intimato di trattenerlo: per l’intero giorno infatti Atena avrebbe continuato a perseguitare Aiace, poi sarebbe stato libero. Tutti tentano di salvare quest’uomo che vuole morire, ma nessuno riesce a frenarlo: Aiace si suicida gettandosi sulla spada conficcata al suolo.
Il dibattito etico-politico sulla sorte del cadavere di Aiace occupa tutta la seconda parte del dramma: Menelao e Agamennone, massima autorità dell’esercito acheo, vogliono privare il corpo di Aiace di qualsiasi rito funebre, così da punirlo del suo tradimento; Teucro cerca di onorare il fratello e far prevalere il diritto dei familiari di dare al morto una sepoltura conveniente. Sarà determinante l’intervento di Ulisse che, nonostante la disputa avuta con Aiace, consiglia saggiamente Agamennone affinché Teucro renda l’ultimo omaggio al defunto.


Sofocle - Nacque nel 495 o nel 496 a.C.  nel demo di Colono, che era un sobborgo di Atene. Figlio di Sophilos, ricco ateniese proprietario di schiavi, ricevette la migliore formazione culturale e sportiva, cosa che gli permise a 15 anni di cantare da solista il coro per la vittoria di Salamina. La sua carriera di autore tragico è coronata dal successo: a 27 anni conquista il suo primo trionfo gareggiando con Eschilo. Plutarco, nella Vita di Cimone, racconta il primo trionfo del giovane talentuoso Sofocle contro il celebre e fino a quel momento incontrastato Eschilo, conclusasi in modo insolito, senza il consueto sorteggio degli arbitri, e che provocò il volontario esilio di Eschilo in Sicilia. In tutto conquista 24 vittorie, arrivando secondo in tutte le altre occasioni.
Amico di Pericle ed impegnato nella vita politica, fu stratega insieme a quest'ultimo nella guerra contro Samo (441-440 a.C.). Inoltre ricoprì un'importante carica finanziaria nel 443-442 a.C., e quando il simulacro del dio Asclepio venne trasferito da Epidauro ad Atene, Sofocle fu designato ad ospitarlo nella sua casa fino a quando non fosse stato pronto il santuario destinato al dio. Questi fatti testimoniano ulteriormente la grande stima che il poeta greco godeva presso i suoi concittadini. Nelle sue funzioni pubbliche, contribuì all'elaborazione della costituzione dei Quattrocento.
Si sposò con Nicostrata, ateniese, che gli diede un figlio, Iofone. Ebbe anche una amante, chiamata Teoris, una donna di Sicione, con cui ebbe un altro figlio, Aristone, padre di Sofocle il giovane. Si dice che, poco prima della sua morte, Iofone intentò un processo al padre Sofocle per una questione d'eredità, affermandone la senilità. La semplice lettura della sua ultima opera mise fine al processo.
Morì nel 406 a.C. e la sua ultima tragedia, l'Edipo a Colono, fu rappresentata postuma lo stesso anno in segno di grande onore. Secondo la storiografia antica, notoriamente amante di tali ambigui aneddoti, morì strozzato da un acino d'uva.


F E D R A (IPPOLITO PORTATORE DI CORONE)
I personaggi (in ordine di apparizione): Afrodite - Ippolito - Servitore - Servitori di Ippolito - Coro di Donne di Trezene - Nutrice - Fedra - Ancella - Teseo - Messaggero - Artemide

La tragedia è ambientata a Trezene dove Teseo è in esilio per un anno, per scontare l’omicidio (seppur per "legittima difesa") dei figli di Pallante. Il dramma è introdotto da una dea, Afrodite, che racconta l’offesa infertale da Ippolito – figlio di Teseo e della Amazzone – che la rifiuta, proclamandola la peggiore delle divinità; per di più onora Artemide, e trascorre il suo tempo cacciando in mezzo ai boschi, dedito ad una idea di purezza del tutto inconciliabile con il mondo di
Afrodite. Per questo la dea si vendica instillando in Fedra, moglie di Teseo, una insana passione per il figliastro. In principio la regina non rivela i propri sentimenti, consumandosi nella "malattia", ma successivamente si confida con la nutrice che, pensando di aiutarla, viola la promessa di tacere e rivela ad Ippolito i sentimenti di Fedra. Il giovane fugge indignato dalla città, ripromettendosi di rientrarvi solo al ritorno del padre. Per riacquistare l’onore perduto, Fedra decide di uccidersi. Prima, tuttavia, concepisce un piano di vendetta nei confronti di Ippolito: in una lettera che sarà recapitata a Teseo dopo la morte di Fedra, il giovane è accusato di aver inflitto violenza alla matrigna.

Il re, scosso dal lutto inatteso, subito dopo aver letto il messaggio e senza indagare ulteriormente, scaglia una maledizione contro il figlio invocando il padre Posidone. Così, mentre il giovane Ippolito si trova alla guida di un carro, da un enorme flutto emerge un mostro marino dalle sembianze taurine; terrorizzate, le cavalle non riconoscono più la mano di Ippolito né la direzione del carro, che si schianta violentemente contro le rocce. L’infelice rimane avviluppato nelle redini in modo inestricabile, il suo corpo viene straziato finché, sciolto dai legami, rimane a terra, agonizzante. Solo al termine della tragedia Artemide irrompe nella scena in qualità di deus ex machina e rivela a Teseo la verità: il cerchio del dramma si chiude come si era aperto, con la divinità antagonista rispetto ad Afrodite. La notizia getta Teseo nello sconforto, sebbene questi ottenga il perdono del figlio che viene totalmente riabilitato alla fine del dramma; a lui Artemide concederà per sempre onori nella città di Trezene, ma questa risoluzione in chiave mitico-religiosa non solleva i mortali dal dolore, come affermano le parole conclusive del coro: "ci sarà molto ondeggiare di lacrime, giacché colpiscono di più le vicende che colpiscono gli eroi".

Euripide - Nacque ad Atene intorno al 485 a.C., ma secondo la tradizione, si fa risalire il suo giorno di nascita al giorno della famosa battaglia di Salamina per creare una linea di continuità tra i tre maggiori tragediografi greci. Nacque da una famiglia ateniese rifugiata sull'isola per sfuggire ai Persiani. Il suo nome verrebbe dall'Euripe, il canale dove si svolse la battaglia. Aristofane suggerisce a più riprese nelle sue commedie la bassa estrazione sociale del poeta, confermato da Teofrasto. Tuttavia, la sua cultura dimostra una educazione raffinata, acquisita dallo studio presso sofisti come Protagora, che non sarebbe stata possibile senza una condizione sociale agiata.
Avrebbe messo insieme una ricca biblioteca, una delle prime di cui si faccia menzione.
Euripide partecipò anche a giochi ginnici, venendo incoronato almeno una volta.
Contemporaneo di Socrate, ne divenne amico. Si propose pubblicamente come tragediografo a partire dal 455 a.C.. La sua prima opera, Peliadi, ottenne il terzo premio.
Divenne presto popolare. Plutarco racconta, nella vita di Nicia, come nel 413 a.C., dopo il disastro navale di Siracusa, i prigionieri ateniesi in grado di recitare una tirata di Euripide venissero rilasciati. Verso il 408 a.C., Euripide si ritira a Magnesia, poi in Macedonia, alla corte di Archelao, dove muore, si dice, sbranato dai cani (ma la notizia è quantomeno dubbia). Solo dopo la sua morte la Grecia lo riconosce in tutto il suo valore e le sue opere divengono famose. Gli ateniesi gli dedicano nel 330 a.C. una statua di bronzo nel teatro di Dioniso.


LA SCENOGRAFIA
ELOGIO DI UN RUDERE

Teatro in un luogo antico, un rudere solenne e bello che si riutilizza per lo stesso scopo per cui fu costruito. Un vero omaggio.
La scenografia deve rispondere a questa situazione gloriosamente anacronistica con un’attitudine astratta che possa sommarsi al carattere di rudere del luogo inteso, incluso, come spazio geografico in cui il contesto e il pubblico sono parte intrinseca dell’insieme. La scenografia ha questo magico compito unificatore.
Un rudere storico non è meno, è piú. Diventa sacro.
Elementi puri e immutabili, mura, spiaggia, mare, casa, sangue, palazzo… piú che artefatti scenici devono permettere il ritorno trionfale di Aiace, Fedra, Ippolito, Ulisse, Atena, Artemide, Afrodite.
Un’opera architettonica gode del suo massimo splendore espressivo quando è progetto, si indebolisce con l’uso e paradossalmente lo recupera quando è rudere, in un ultimo sforzo di resistere al passo del tempo.
In questa linea di condotta il materiale basico con cui si configurerá la scena è il legno naturale che nel suo stato originale è capace di coesistere, senza eccessive debolezze, con la storica massa di pietra del teatro.
La scenografia, nella sua modesta misura, pretende di incorporarsi alla storia del rudere con un’attitudine di silenzio e quiete per contribuire cosí alla definizione di un luogo atemporale in cui i registi delle tragedie possano esprimere il proprio pensiero teatrale.
[Jordi Garcés]

Nota Biografica - Jordi Garcés nasce a Barcellona il 25 Giugno 1945. Studia presso la Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Barcellona dove si laurea nel 1970. Durante gli anni di studio lavora presso lo studio Martorell-Bohigas-Mackay en el Taller di Ricardo Bofill; inizia l’attività professionale nel 1970 con Enric Soria con cui sará associato fino al 1994. Negli anni ’70 è Professore di progettazione presso la Scuola Eina di Barcellona e  Professore di progettazione presso la Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Barcellona; dal 1978 al 1980 è Membro della Giunta del Col·legi d’Arquitectes di Barcellona.
Occupa una Cattedra di Progettazione dal 1985 e nel 1987 è Dottore in Architettura presso l’Universitá Politecnica di Catalogna. L’anno successivo diviene Professore titolare di progettazione presso la Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Barcellona. E’ Membro della Giunta del Foment de les Arts Decoratives, FAD, dal 1990 al 1992 e Assessore all’Organizzazione di Relazioni e Conferenze del Congresso della U.I.A. nel 1996. Dal novembre 2007 è  Membro della Giunta del Ateneu Barcelonès. Come Professore è stato invitato in diverse occasioni presso l’École Polytechnique Fédérale di Losanna (Svizzera). Ha partecipato come membro della giuria a numerosi concorsi e premi.

Tutte le informazioni sulle date, gli orari, i costi dei biglietti su: www.indafondazione.org

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12 maggio 2010
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