L'amaro caso della baronessa di Carini...
Un giallo storico irrisolto: tra verità storiche, depistaggi e leggende.
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Su una collina dei monti Ericini, che dalla punta Lilibeo si estendono sino a Capo Gallo, sorge Carini, una cittadina sul mare ricca di splendide chiese che contengono degli autentici capolavori di arte figurativa. La città, chiamata anticamente Garinis, fu costruita intorno al X secolo dagli Arabi, non lontano da un insediamento sicano di nome Hycara, distrutto nel 415 a.C. dall'ateniese Nicia.
Sin dal periodo normanno Carini divenne feudo, successivamente passò sotto il dominio della Famiglia Bonello e in seguito ai La Grua, che nel 1403 ne ottennero il principato. La storia della città è legata a filo doppio ai La Grua Talamanca e al loro castello che ha fatto da cornice alla tragica fine della sfortunata "baronessa di Carini" e del suo presunto amante Ludovico Vernagallo.
Leggenda vuole che per le stanze del maniero si aggiri ancora il fantasma tormentato della bella baronessa ferocemente assassinata dal padre, il barone Cesare Lanza di Trabia, e cantata per secoli da poeti e cantastorie.
Un'altra leggenda narra poi che in occasione dell'anniversario dell'efferato delitto comparirebbe su un muro del maniero l'impronta della sua mano insanguinata, e qui il mistero si infittisce. Su una delle metope del torrione principale del castello infatti, è scolpita una mano di epoca anteriore al delitto... cosa significhi di preciso nessuno lo ha ancora capito.
Ma vediamo come sono andati i fatti...
Il 21 dicembre 1543, Donna Laura Lanza fu costretta dal padre a sposare a soli 14 anni il barone di Carini Vincenzo La Grua. Dopo 20 anni di matrimonio, essendo stata ripetutamente delusa dal marito che la lasciava sempre sola per curare i suoi affari, la bella baronessa iniziò una relazione, non si sa se d'amicizia o d'amore, con Ludovico Vernagallo del vicino feudo di Montelepre, cui era legata dall'infanzia da una grande amicizia.
Il 4 Dicembre del 1563 gli eventi precipitarono: Laura e Ludovico si incontrarono segretamente nel castello ma furono scoperti dal marito di lei. Secondo la tradizione un frate di un convento vicino, su ordine del marito, corse a Palermo ad avvertire Don Cesare. Il barone infuriato partì da Palermo con i suoi cavalieri, e arrivato nei pressi del castello, lo fece circondare per non far fuggire il Vernagallo, irruppe nella stanza della figlia e la uccise senza pietà a coltellate, salvando così l'onore del casato. Poi fece inseguire dai suoi 'picciotti' il Vernagallo in fuga e fece uccidere anche lui.
Questa più o meno è la storia tramandata da cantastorie e poeti dato che dopo l'efferato delitto il Barone di Carini e quello di Trabia fecero di tutto per occultare le prove e depistare le indagini avviate dal vicerè spagnolo in Sicilia che immediatamente adottò per i due nobili i provvedimenti previsti dalla legge: furono banditi ed i loro beni vennero sequestrati.
Nessun funerale fu celebrato per i due e la notizia della loro morte fu tenuta segreta ma si divulgò lo stesso e divenne di dominio pubblico. Gli abitanti di Carini terrorizzati, pur amando molto la loro signora, tacquero così per secoli non si è mai riuscito a capire chi davvero fossero i protagonisti della vicenda, se il vero assassino fosse stato il padre o il marito, se il Vernagallo fosse stato trucidato o fosse riuscito a fuggire, quale sia stato il movente del delitto, dato che non ci sono prove certe che i due fossero davvero amanti.
Lo stesso Castello di Carini, nei secoli, fu abbandonato dagli eredi e lasciato all'incuria e alla decadenza. A cercare di fare chiarezza su questo giallo cinquecentesco sono stati una serie di documenti ufficiali ritrovati in Sicilia e in Spagna. Uno di questi documenti è la lettera che Cesare Lanza di Trabia scrisse al re di Spagna Filippo II per discolparsi dell'omicidio della figlia, nella quale il nobile giustificò l'omicidio, come un delitto d'onore. Per questo motivo non pagò mai per il delitto commesso e ricevette il perdono reale, in un'epoca in cui i nobili potevano fare ciò che volevano e spesso erano al di sopra delle leggi.
È stato solo grazie ad un poemetto lirico in dialetto siciliano "Chianci Palermo, Chianci Siracusa", scritto molto probabilmente da un anonimo cuntastorie, di quelli che giravano per i paesi con cartelloni disegnati e qualche strumento musicale, che la storia della sventurata baronessa è arrivata a noi, dopo 5 lunghi secoli.
Riportiamo in seguito i versi relativi alla scena del delitto:
Vju viniri 'na cavalleria
chistu è mè patri chi veni pri mia!
Signuri patri, chi vinistivu a fari?
Signura figghia, vi vegnu a ‘mmazzari.
Signuri patri, aspettatimi un pocu
Quantu mi chiamu lu me cunfissuri.
- Habi tant’anni ch’un t’ha confissatu,
ed ora vai circannu cunfissuri?
E, comu dici st’amari palori,
tira la spata e cassaci lu cori;
tira cumpagnu miu, nun la sgarràri,
l’appressu corpu chi cci hai di tirari!
Lu primu corpu la donna cadìu,
l’appressu corpu la donna muriu.
Nell'800 lo studioso di folklore Salomone Marino raccolse in giro per l'Italia circa 400 versioni diverse del poema e con un lavoro immenso iniziò a fare luce sugli elementi che indubbiamente concordavano con fatti e personaggi realmente esistiti.
Le tappe del nostro itinerario
Castello La Grua Talamanca
Il castello di Carini fu fatto erigere tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo dal primo feudatario normanno Rodolfo Bonello su una precedente costruzione araba. Passato alla famiglia Abate nel 1283 sotto il regno di Costanza D'Aragona, il maniero fu trasformato da struttura difensiva a residenziale. Nel XIV secolo il feudo passò alla famiglia dei Chiaramonte. Il nuovo re di Sicilia, Martino I, nel 1397 affidò la Terra di Carini con tutti i suoi diritti e pertinenze a Ubertino La Grua che non avendo avuto figli maschi, fece sposare la sua unica figlia Ilaria con il catalano Gilberto Talamanca, creando così la nobile casata dei La Grua Talamanca che rimarrà in possesso della baronia sino al 1812. Durante la metà del XV secolo il barone Giovan Vincenzo Talamanca diede il via ad una serie di lavori di restauro che trasformeranno il maniero da caserma a palazzo per residenza estiva.
Il Castello sorge su una rupe e per raggiungerlo basta percorrere il Corso Umberto I e salire i gradini della badia. L'edificio racchiude in se quanto meglio può restare dell'arte arabo-normanna, del '400, del '500 catalano e rinascimentale e del '700. Le mura medievali possenti risalgono all'XI e XII secolo mentre elementi arabo/normanni sono riscontrabili nella seconda porta del castello, dove l'arcata a sesto acuto ne prolunga lo slancio. Il piano terreno si apre su una stanza con volta a crociera, mentre un grande salone è diviso da due arcate a sesto acuto con colonna centrale.
Nel lato est dell'edificio è possibile ammirare un lavatoio in pietra di Billemi, una cappella affrescata a Trompe l'oeil che custodisce un prezioso tabernacolo ligneo del '600 e statua in marmo della Madonna di Trapani. Il piano superiore invece è di stile rinascimentale e si apre con un portale marmoreo sul quale figura la tanto discussa scritta 'Et nova sint omnia' (e tutto sia rinnovato), che è la continuazione della scritta presente sul portale marmoreo del lato sud-ovest del castello 'Recedant Vetera' (sia cancellato il passato).
Non si sa di preciso a cosa si riferiscano le due iscrizioni, se alludano all'omicidio della baronessa Laura o semplicemente si riferiscano alla trasformazione da caserma in residenza. Dalla porta accanto si accede al salone delle feste, caratterizzato da un soffitto ligneo a cassettoni con elementi stalattitici tutti decorati con stemmi nobiliari, salmi dedicati alla Madonna e scritte allegoriche. Interessanti sono le stanze affrescate come quella dove si trova l'affresco di 'Penelope ed Ulisse'. Una stanza merita attenzione per le sue caratteristiche vele e i pennacchi terminanti in pietra di Billemi di stile gotico-catalano.
Chiesa Madre
Carini custodisce tutta una serie di gioielli architettonici della scuola siciliana tra il XVI e il XVIII. All'inizio del '900 in città c'erano circa 20 chiese tra cui spiccano la splendida Chiesa Madre eretta alla fine del XV sec. L'edificio si presenta con una struttura a croce latina, divisa in tre navate da 12 colonne in ciaca di 'Billiemi' e conserva un numero straordinario di opere d'arte tra le quali ricordiamo una splendida acquasantiera del 1496 di scuola gaginiana, in marmo bianco; un tabernacolo sempre di scuola gaginiana dove è raffigurato l'Ecce Homo; una lavagna dello Zoppo di Ganci (1570-1633), raffigurante il Crocifisso tra S. Francesco e S. Onofrio. Ad epoche più recenti risalgono due grandi tele di Vito D’Anna (1718-1769), il grande maestro del '700 siciliano, raffiguranti l'Addolorata e la Veronica.
Il campanile rifatto negli anni 30 aveva originariamente quattro pannelli in maioliche, raffiguranti: S. Vito, l'Assunta, S. Rosalia e il SS. Crocifisso, datati 1715 e firmati da Ignazio Milone, che oggi si trovano sul lato esterno nord della chiesa. Splendido anche l'Oratorio del Santo Sacramento che conserva gli stucchi di Giacomo Serpotta, un dipinto del tardo 500 di autore ignoto raffigurante la Madonna del Monserrato posto all'ingresso, mentre sull'altare una grande tela dell'Ultima Cena di Pietro D'Asaro (1579-1647), detto il monocolo di Racalmuto, sulla volta il grande affresco del trionfo della Fede.
Chiesa degli Agonizzanti
Esempio classico di architettura barocca è la Chiesa degli Agonizzanti (sec. XVII), ricca di stucchi di stile serpottiano, interrotti sulle due pareti laterali da una serie di affreschi raffiguranti momenti della vita della Madonna di Filippo Tancredi (1655-1722) e di Filippo Randazzo (1692-1742). La chiesa ospita inoltre, una bellissima tela raffigurante la Madonna degli Agonizzanti del XVIII sec.
Un'altra chiesa da non perdere è quella del Rosario con l'annesso convento (1576-1579) dei Padri Domenicani. Il grande complesso architettonico si snoda attorno ad un atrio e custodisce un prezioso bassorilievo in marmo raffigurante la Madonna con Bambino di scuola gaginiana; la splendida copia su tela della 'Madonna del Rosario' di Vincenzo da Pavia.
Altre edifici sacri da vedere sono la chiesa e il convento del Carmine (1566-1571), di cui si ammira un bellissimo chiostro con al centro una fontana; la chiesa di San Vincenzo, collegato con il convento delle Suore Domenicane (fine XVI sec.), la chiesa di Santa Caterina, annessa al collegio e ricca di affreschi di Giuseppe Testa. Da non perdere inoltre la statua lignea del bambin Gesù del Bagnasco custodita all'interno della chiesa di San Giuseppe.